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Neal Morse è uno di quegli artisti in grado di generare opinioni molto contrastanti tra gli appassionati di prog-rock. Chi lo ama per la sua debordante verve e creatività o per la struttura complessa delle sue composizioni; chi non lo “sopporta” per gli stessi motivi… rovesciati: la frequenza, quasi annuale, delle sue pubblicazioni, l’ampollosità dei brani, la ripetitività, la lunghezza degli album… Insomma, un artista che divide. “The similitude of a dream” (uscito a nome The Neal Morse Band come il precedente “Alive again” e come “The grand experiment”) promette di originare i soliti sentimenti opposti e “querelle” varie tra gli ascoltatori. Si tratta di un concept-album a sfondo religioso ispirato da una delle opere principali del cristianesimo riformato, “The pilgrim’s progress”, scritto nel 1678 da John Bunyan. Il lavoro si sviluppa su due cd per ventitré brani complessivi ed oltre 100 minuti di musica. Iniziamo con il primo cd. “Long day” è una piacevole soft-song che procede un primo pezzo forte, l’energica “Overture”, tipico esempio di heavy-prog alla… Morse. Non male, ed anch’essa con spiccati accenti hard, “City of destruction”, in cui emerge tutto il “mestiere” della band nel creare melodie subito accessibili su strutture strumentali piuttosto complesse. Impazzano le tastiere nella notevole e stringata “We have got to go” (eccezion fatta per le finali “Broken sky/Long day-Reprise-“, tutti i brani sono piuttosto brevi con un picco che sfiora i sette minuti per “The ways of a fool”), mentre in alcune occasioni, come in “Make no sense” e nella durissima “Draw the line”, il gruppo non brilla certo per ispirazione, ripetendo cliché che possono senz’altro giustificare il “pollice verso” nei confronti dell’artista americano. Molto migliore “Back to the city” per la quale vale, in parte, il discorso fatto per “City of destruction”. Divertente “The ways of a fool, tra Queen e Beatles. Piuttosto prevedibili la “purpleiana” “So far gone”e la conclusiva “Breath of angels” che solo sul finale si ravviva un poco. Luci ed ombre presenti anche nel secondo cd. Malgrado lo sfoggio di tecnica, è un po’ indigesta “Slave to your mind” mentre si eleva appena sopra la sufficienza la ballad “Shortcut to salvation”, con un pregevole apporto del sax ma cori un po’ manieristici. Il pieno decollo è rinviato, dunque, con la rockeggiante “The man in the iron cage”, con “riffoni” dell’elettrica di Eric Gillette e Hammond (di Bill Hubauer) in evidenza, su una ritmica granitica di Randy George al basso e Mike Portnoy alla batteria. Diversissima “Sloth”, soffusa e dall’atmosfera dolcemente malinconica, nella quale il gruppo lavora, per una volta, di fioretto. “Freedom song” è un brano quasi country di cui avremmo fatto volentieri a meno. Per contro “I’m running” è si ipervitaminica ma un po’ carente dal punto di vista melodico. Di pregevole fattura “The mask”, con una lunga introduzione di pianoforte ed una sofferta e riuscita performance vocale di Morse. Ottimo lo strumentale “The battle”, un heavy-sinfonico che mette in mostra tutte le capacità esecutive della band. Chiusura ancora in crescendo con “Broken sky/Long day (Reprise) ”. La prima è una ballata già ampiamente sfruttata, ma di buon gusto che confluisce poi nella “reprise” di “Long day” che chiude in modo soddisfacente l’album. Come detto, “The similitude of a dream” è un lavoro altalenante e, molto banalmente, se Morse e C. si fossero limitati ad un solo cd (e ad una sessantina di minuti soltanto) probabilmente il risultato sarebbe stato migliore e meno faticoso all’ascolto. Non mancano i momenti di alto livello e quindi complessivamente ci troviamo al cospetto di un discreto lavoro che, come al solito, dividerà l’audience. Ma, come si dice… l’importante è che se ne parli.
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