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23 Maggio 2011, Gramercy Theater, New York City. Il teatro non è perfettamente pieno ed il pubblico è formato quasi esclusivamente da uomini che hanno superato la quarantina, testimoni di una serata che sembra quasi una celebrazione. Il gran maestro della cerimonia è Neal Morse, dietro alle sue tastiere che sembrano quasi un altare. La musica è una specie di grande festa gospel e la gente partecipa cantando ed osannando la sua star. Sul posto più alto della gradinata ho potuto ascoltare per la prima volta “Testimony 2” e godermi questa grande liturgia… non senza rimanere vittima di qualche colpo di sonno, forse a causa del jet lag, o forse anche no. Se il Progressive Rock verrà ricordato un domani forse sarà anche merito di Neal Morse, che vi piaccia oppure no. Questo vecchio e stanco mondo del Prog, così auto celebrativo, così surrogato di sé stesso, con le sue tastiere digitali ed i suoi mille dejà-vu, che non riesce a fare breccia nelle nuove generazioni che hanno lo sguardo e le orecchie rivolti altrove, è contenuto tutto qua, dentro ad un box di cartone grigio verdastro, in 78 minuti e 22 secondi di musica, più un bonus di 36:52, se non vi bastasse. Anche fra i fan più fedeli di Morse c’è chi ammette che le sue creazioni sono effettivamente un po’ prolisse. E come non potrebbero esserlo? Morse ha tantissime cose da dire e questa voglia si percepisce perfettamente dalla sua irrefrenabile energia e dalla mole di contenuti musicali ammucchiati in un solo disco. L’argomento poi è ciò che gli sta più a cuore su questa terra: la storia della sua rinascita in Cristo che si dipana attraverso il racconto delle sue esperienze, dei suoi sentimenti religiosi, del suo amore per questi doni trovati sul suo cammino. Per la precisione, come si intuisce dal titolo, questo secondo volume chiude (almeno così mi auguro, ma non mi stupirò di certo se verranno fuori ulteriori capitoli) un discorso aperto con “Testimony” ben otto anni fa. L’album si divide in tre parti, la sesta, la settima e l’ottava, ulteriormente frammentate in 13 canzoni a formare un unico concept che parla della vita di Neal dagli inizi con gli Spock’s Beard fino al 2002, anno in cui li ha lasciati, mentre il bonus CD contiene due brevi brani e una suite di quasi 26 minuti. Per la cronaca, l’edizione speciale in box comprende anche un DVD con il making dell’opera e se proprio non ne avete abbastanza, con la pubblicazione di questo album è uscita anche una autobiografia, “Testimony the Book”. La band di Morse comprende come al solito Randy George al basso e l’ormai inseparabile Mike Portnoy alla batteria. Il sound è poi rifinito da un terzetto d’archi e da diversi coristi, oltre che dai sax di Jim Hoke e Mark Leniger (che comunque partecipano in maniera abbastanza limitata). Non mi entusiasma più di tanto la scelta dei registri delle tastiere, dal feeling un po’ sintetico. I numerosi ospiti comprendono anche alcuni ex compagni degli Spock’s Beard e più precisamente il fratello Alan, Dave Meros e Nick D’Virgilio, utilizzati però solo per le parti vocali di “Time Changer” e forse anche come testimoni diretti di quella vita sdoppiata che lo costringeva a frequentare la chiesa di giorno e i bar la notte (è Neal stesso a scriverlo). Se Neal Morse non fosse stato così impegnato a scrivere musica e a suonarla on the road con gli Spock’s, precisa egli stesso proprio nel testo di “Time Changer”, avrebbe portato la moglie in chiesa… se solo fosse rimasto a casa, invece di essere costretto a lasciare la comunità cristiana e ad andarsene in giro per il mondo… Mi viene da chiosare: ma caro Neal, se non ti fossi fatto le ossa con gli Spock’s Beard, a chi canteresti ora i tuoi gospels? Del resto io ti ho visto suonare in un teatro e non ti ho certo incontrato in chiesa… Ma lasciamo da parte queste considerazioni personali che forse troveranno chiarimenti maggiori nella sua autobiografia (lascio a voi il compito di scoprirlo) e torniamo alla musica. La porzione migliore è secondo me costituita dal primo blocco e cioè dai quattro brani che compongono la “Part Six”. Di lì in poi l’album continua a ruotare attorno alle stesse idee, con ampie riprese dei temi melodici portanti che contribuiscono a creare un filo conduttore attraverso un percorso musicale lungo (un’ora e 18 minuti circa) ed impegnativo ma anche con inutili allungamenti di brodo che fanno invece diluire un po’ troppo i sapori, con una significativa perdita di forza soprattutto nella parte centrale. Lo spirito prevalente è quello di un colorato rock di stampo americano con arricchimenti sinfonici che sanno molto di già sentito. Clamorosi i richiami agli Yes, come ad esempio in “Overture No. 4”, che si apre con una specie di rivisitazione di “And You and I”, la quale fa nuovamente capolino nella emozionante ballad “Jayda”, dedicata alla figlia nata in condizioni critiche di salute, e numerosi sono anche i riferimenti verso i Dream Theater, soprattutto quando ritmi e suoni si appesantiscono, ma anche verso gli stessi Spock’s Beard: la già citata “Time Changer” è un esempio molto autorevole in tal senso, forse proprio perché l’ex gruppo di Morse è oggetto esplicito di questo brano e un altro esempio indicato potrebbe essere rappresentato da “Change of a Lifetime”. Come anticipato la parte più debole è la settima: un pezzo come “Nighttime Collectors” che mira a ricreare la scarica adrenalinica del concerto (vengono inserite anche le grida del pubblico) somiglia quasi a un pezzo dei Mötley Crüe, con le dovute differenze date dallo sfoggio di technical skills e aperture sinfoniche ad effetto. Di una noia infinita appare invece un pezzo come “The Truth Will Set You Free” che nell’arco di otto minuti sembra accennare ripetutamente alla fine senza che questa arrivi mai davvero. E poi ci sono tantissime parti corali piene di ormoni, sequenze cantabili alla Bon Jovi e altre amenità di dubbia bellezza ed utilità. L’ultimo raggruppamento di canzoni contiene alcuni episodi leggeri ed affabili, con uno spirito pop che a tratti diviene preponderante, come ad esempio nella seconda parte della già citata “Change of a Lifetime”, o come nella radiofonica “Road Dog Blues” ma anche nel contesto della conclusiva “Crossing Over” che ci traghetta verso la conclusione dell’album attraverso un reprise dei temi melodici di “Mercy Street” tirato decisamente per le lunghe. Due parole vanno spese anche per il bonus CD, composto da due brevi brani decisamente trascurabili e da una lunga canzone di 26 minuti circa, molto articolata (da segnalare lo splendido assolo di chitarra di Steve Morse) che sfoggia sequenze neoclassiche, arricchimenti tastieristici e impasti sinfonici ricercati come da tempo non si percepivano nelle produzioni solistiche di Morse. Si tratta in sostanza quasi di un album a sé stante che mostra i suoi lati di interesse, soprattutto per chi ha nostalgia di un certo repertorio. Questo “Testimony 2” non manca certamente di idee, come avrete intuito anche dal numero di parole che ho utilizzato per parlarne, non è affatto privo di episodi realmente emozionanti e sicuramente gode di una realizzazione tecnicamente invidiabile (cosa che comunque a certi livelli dovrebbe essere scontata), sicuramente vi divertirà e vi darà anche tanti spunti di discussione con gli amici ma la mia opinione è che una maggiore sintesi e maggiori tagli avrebbero forse potuto fare la differenza fra un buon prodotto non privo di difetti e un’opera d’arte nel vero senso del termine. Comunque, dal mio punto di vista strettamente personale, se questa deve essere la strada della redenzione, preferisco l’inferno.
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