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Ritornano con un album ambizioso Yogi Lang e i suoi RPWL dopo qualche anno di pausa (eccezion fatta per il doppio cd - raccolta con anche brani rivisitati), in cui si è dato spazio a progetti solistici. Ormai sepolto il passato da cover-band dei Pink Floyd, e reduci dal controverso “The Rpwl experience” del 2008 (con pericolose sterzate pop ed un generale indurimento del sound), ci riprovano ora con questo concept “Beyond man and time” che verrà anche supportato da numerose date live in Europa (ma non in Italia… almeno per ora). Fil rouge dell’album è il viaggio metaforico, ma anche fisico, nel mondo, fuori dalla caverna di Platone, all’interno della quale il filosofo greco immaginava si trovasse l’uomo prigioniero delle proprie opinioni e della “non verità”. Una bella sfida!! Altro che fate, giullari o gnomi!!!
Cambiamenti nella line up della band: punti fermi Yogi Lang (voce e tastiere) e Kalle Wallner (chitarre), entrano nel gruppo Werner Taus (al basso), Marc Turiaux (alla batteria) e Markus Jehle (tastiere e finora presente solo nelle apparizioni live). “Beyond man and time” è composto da 11 tracce per 73 minuti di durata, con il picco creativo rappresentato, non a caso, dai 16 minuti di “The fisherman”.
Magari non sarà ricordato come il brano della svolta, ma è certo che qui la band ci presenta qualcosa di nuovo: non vengono dimenticate certamente le melodie ammiccanti, ma lo spettro sonoro ed i duetti chitarra-tastiere sono stavolta arricchiti da un leggero sentore etnico (già sperimentato comunque in “World through my eyes”). Inoltre l’uso più diversificato delle tastiere conferisce un aroma vintage decisamente inedito per il gruppo. Certo i“solos” liquidi e sognanti di Wallner sono sempre presenti, l’approccio è pur sempre RPWL-doc (e ci mancherebbe in fondo…) ma lo sforzo di distaccarsi un poco dai soliti “cliché” è evidente, apprezzabile e anche riuscito. Naturalmente i Pink Floyd o i Porcupine Tree sono sempre presenti (anche in questa suite), ma mi pare proprio che la maturità del gruppo sia ora tangibile. Le atmosfere dilatate sono evidenti in “We are what we are” e nella title-track, brani che non avrebbero certo sfigurato in “World through my eyes” di qualche anno fa.
Potenziale singolo (ma pur sempre di 7 minuti) potrebbe essere “Unchain the earth”, orecchiabile e che ricorda anche gli U2.
Molto dinamica e potente (con un bel lavoro della sezione ritmica nuova di zecca) “The ugliest man in the world” che ci riporta in ambito Steven Wilson e Co. ma anche ai Rush per certi versi. “The road of creation” pare uscita da un album degli Eloy per le sue spiccate sonorità “space” e per la voce di Lang che fa un po’ il verso a Steven Wilson e a… Frank Bornemann. Il breve pezzo d’atmosfera “Somewhere in between” prelude ad un altro futuro classico del gruppo “The shadow” con un bell’assolo di Wallner.
Un refrain decisamente aggressivo contraddistingue “The wise in the desert”, mentre la gilmouriana “The noon” chiude in bellezza un album sicuramente gradevole.
Magari gli scettici continueranno a non apprezzare la musica del gruppo, personalmente, seppur non un capolavoro, trovo che “Beyond man and time” sia il loro miglior album. Comunque si può sempre ripiegare su “The division bell”… non è male in fondo.
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