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Fred Schendel e Steve Babb sono praticamente da sempre I Glass Hammer, con una loro precisa identità artistica che li ha portati ad essere tra le prog band statunitensi più conosciute ed apprezzate nel mondo. Gli ultimi tre album (“If”, “Cor cordium” e “Perilous”), complice anche l'ingresso del cantante Jon Davison, avevano indirizzato ancor di più il suono della band verso il più tipico Yes-sound (tanto che Mr. Chris Squire ha pensato bene di assumere Davison come cantante dello storico gruppo). Essendo praticamente impossibile dedicarsi ad entrambi i progetti (per quanto pesante l'eredità di Anderson, chi non accetterebbe di entrare a far parte di una band che ha fatto la storia della musica? ) ecco che il contributo di Davison ad “Ode to echo” (l'ultima fatica dei ragazzi di Chattanooga) è limitato ad alcuni brani. Si rivedono quindi nelle vesti di lead vocals due vecchie conoscenze come Carl Groves e Susie Bogdanowicz e come ospiti altri due ex componenti (sempre alla voce) come Walter Moore e Michelle Young. Tra gli ospiti anche Rob Reed dei Magenta e David Ragsdale violinista dei Kansas. Diciamo subito che “Ode to echo” pur essendo riconoscibilissimo come Glass Hammer, ha degli arrangiamenti più snelli, contrassegnati da una struttura compositiva sempre attenta , ma semplificata rispetto alle recenti produzioni del gruppo. Lo dimostrano, anche, la presenza di 3 brani della durata inferiore ai 5 minuti l'uno,quasi a testimoniare il tentativo di “provare” qualcosa di diverso. E' tipicamente Glass Hammer per gli impasti vocali caratteristici, per le notevoli sezioni sinfoniche, per il solito gran lavoro del basso di Babb e delle tastiere di Schendel, per la chitarra sempre più personale di Alan Shikoh, mentre l'ingresso del nuovo batterista, Aaron Raulston, ha dato un accento più marcatamente rock e muscolare a molte composizioni. Ma “Ode to echo” è anche qualcos'altro. Un rifarsi al “vecchio” suono Glass Hammer (prima di Davison diciamo, a titolo esemplificativo) e rinvigorirlo o aggiornarlo, se preferite, con nuove infatuazioni musicali. I Gentle Giant (già fonte di ispirazione) ritornano in “Misantrog” con in più un pizzico di new prog english-style complice le tastiere di Reed e la batteria possente di Raulston senza scordare Squire e soci ovviamente...“Garden of Hedon”, uno dei brani migliori dell'album, vede un Shikoh molto grintoso ben sostenuto dalla ritmica energica e da un Schendel decisamente ispirato, è invece più vicino a certi Yes. Notevole l'incedere acustico di “Crowbone” (con delle belle melodie vocali) in cui ben si inserisce il violino di Ragsdale. Il brano cresce poi in intensità ritmica con diversi e sgargianti cromatismi delle ricche tastiere.“ I AM I” (cantata dalla Bogdanowicz) è un poco insipida nelle melodie ma ,con un certo coraggio, si discosta abbastanza dagli standard del gruppo, sfiorando il jazz rock in alcune fasi strumentali più complesse. Anche “The grey hills” soffre di qualche impaccio melodico, malgrado i vari intarsi vocali presenti nel pezzo. “Panegyric” presenta semplicemente organo, pianoforte e chitarre acustiche oltre ad un breve testo che calza a pennello. Anche qui qualcosa di nuovo dunque. Se la cover di Carole King , “Porpoise song” non lascia tracce (e non se ne capisce anche la presenza se vogliamo dirla tutta...), “Ozymandias” è invece vicino ai G.H. prima maniera, un pizzico più duri magari, e mancante, come in quei G.H. di quel qualcosa che ne facesse scaturire una scintilla maggiore e più ispirata. “Ode to echo”, nel complesso non (mi) delude, forse ce lo aspettavamo anche più o meno così e 2 o 3 brani sono senz'altro di valore. Certo se ci dite di scegliere noi prendiamo sempre “If” e “ Cor cordium”, cloni o non cloni che siano.
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