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Grimspound è il nome di un sito archeologico dell’età del bronzo formato da 24 casupole disposte a cerchio che si trova nella contea del Devon, nel sud dell’Inghilterra. Il nome deriva dall’antico nordico “grimr” che era l’appellativo di Odino. La divinità, nella mitologia norrena, era solita essere accompagnata da due corvi, Huginn e Muninn e, anche a causa di questa simbologia, il corvo in copertina, il cui volo è guidato dalle stelle, non poteva che chiamarsi Grimspound. Ma quel corvo, che nella copertina di “Folklore” era immobile e a terra, ha spiegato le ali e taglia libero l’aria verso altre destinazioni, proprio come la musica qui contenuta che, pur presentando evidenti analogie col recente repertorio del gruppo, sembra volare libera, in alta quota. Certamente, ancora una volta, non posso che ribadire l’effetto benefico della performance live al Kings Place di Londra che ebbe luogo due anni fa. Il bilanciamento del gruppo in una versione live ha infatti cambiato il suo songwriting rendendolo più slanciato e dinamico e privo di inutili sovrapposizioni, pur nel contesto di partiture ricche e piacevolmente variegate. Questa volta non c’è alcun apporto orchestrale e questo va a vantaggio di Rachel Hall i cui archi (violino, viola e violoncello) sono grandi protagonisti di questa musica. Ma “Grimspound”, il cui volo simboleggia anche il lungo processo creativo che porta alla pubblicazione di un album, vuole anche essere un punto di raccordo con i precedenti lavori ed in particolare da “The Underfall Yard” (2009) in poi. Quell’album, che segnava chiaramente la svolta musicale dei Big Big Train con l’arrivo della splendida ugola di David Longdon, celebrava il lavoro di persone che hanno reso grande l’Inghilterra col loro ingegno, in “English Electric” venivano invece cantate le gesta di coloro che, lavorando sul suolo e nelle viscere della terra, ne hanno disegnato il paesaggio, in “Folklore”, diretto predecessore di questa nuova opera, si faceva invece riferimento alle tradizioni che uniscono i popoli e infine “Grimspound” raccoglie tutti questi fili conduttori, attraversandoli tutti, e questa eredità globale si traduce certamente in un disco interessante che offre nuove prospettive, pur nel rispetto di certi legami inconfondibili. Alcune composizioni risalgono effettivamente al passato, come la stessa title track le cui linee di batteria furono incise da Nick al Real World durante il making di “Stone & Steel”, ma tutti questi spunti sono stati trasformati in qualcosa che effettivamente appare lanciata verso un futuro che sembra davvero promettente. Quest’opera possiede una sinfonicità davvero esaltante, con momenti strumentali ricchi in cui le parti vocali si dileguano con classe, in un equilibrio perfetto in cui non si abusa di testi che comunque, come al solito, raccontano ancora una volta storie avvincenti, come quella di “Brave Captain”, la traccia di apertura, una mini suite in tre movimenti di dodici minuti in totale, che ripercorre le gesta di Albert Ball, asso dell’aviazione britannica dal carattere solitario e ribelle. Immediatamente veniamo sommersi di esplosioni sinfoniche, con arrangiamenti imponenti e temi melodici come sempre affabili e ben cesellati. L’impalcatura è dinamica e robusta a sostegno di un pezzo arioso e suggestivo che ha l’effetto di solidità e slancio di uno snello grattacielo in vetro e acciaio. Gli archi, come annunciato, condizionano notevolmente le colorazioni del brano che presenta inoltre un’innervazione elettrica brillante. Subito a seguire viene sparata una cartuccia interessante e cioè lo strumentale “On the Racing Line” dagli ampi spunti cameristici e dalle nuance jazz con importanti partiture pianistiche. Con questo brano, che fa ancora una volta riferimento (come in “Folklore”) al pilota John Cobb, i Big Big Train sembrano quasi volerci convincere del grande spessore di questo nuovo album, che realizza pienamente, chiariamolo subito, quanto di promettente si profila alle nostre orecchie fin dalle primissime note. Legata emotivamente alla traccia appena trascorsa, “Experimental Gentlemen”, ispirata ai viaggi del capitano Cook, si presenta con un ampio movimento strumentale che ci culla, con le sue arie distese, per quasi due minuti. Col canto il pezzo prende più vigore, con toni più tesi, tanto che la lunga coda finale sembra slegarsi, sognante, dal resto del brano. “Meadowland” è un luogo ideale dove le persone si incontrano per condividere pensieri sulle cose che amano. La chitarra arpeggiata ed il violino intonano un’aria dai riflessi folk che ha il profumo dell’aria salata del mare che lambisce prati verdi ed infiniti. L’impianto musicale di questa breve canzone è semplice con un cantato limpido e tenero. Ed eccoci nel cuore del disco con la title-track sul cui significato abbiamo già indugiato e la musica pare in effetti volare con le sue melodie soffuse e gentili e col suo romanticismo delicato e trasognato. Anche qui godiamo di momenti strumentali sinfonici che a volte fanno pensare a qualcosa degli Yes ma ogni riferimento, e non mancano alcuni spunti jazzy, si stempera in un mood sublime. Ma le sorprese non sono finite e devo dire che “The Ivy Gate” mi ha sorpreso non poco, a partire dalla presenza di un’ospite gradita ed inaspettata come Judy Dyble, voce storica dei Fairport Convention, che divide il ruolo di cantante con Logdon, interpretando una canzone a lei adattissima. Il brano, oscuro e drammatico, parla della tragica storia di un uomo che lascia la moglie, in attesa di un bambino, per andare in guerra e, al suo ritorno, scopre che entrambi sono sepolti nel terreno di famiglia. Il violino rustico ma cupo disegna perfettamente le atmosfere gotiche del brano che possiede dinamiche blues e sinfoniche che a tratti ci fanno pensare ai Kansas. Il pezzo, molto legato, giocoforza, alla poetica folk dei Fairport Convention, è davvero molto particolare, con intarsi pregiati di Hammond e Moog. E la carica dell’album sembra non spegnersi mai ed ecco che, giungendo quasi al termine, ci viene somministrato un pezzo molto lungo ed articolato come “A Mead Hall in Winter” di oltre 15 minuti di durata. La lunga sequenza strumentale di apertura sembra farci pregustare la qualità di un brano che brilla per la sua complessità e per la sua dolcezza. I continui cambi di marcia e di atmosfere ci trascinano nell’ascolto, creando un forte legame emotivo che colpisce profondamente anche con l’aiuto di armonie vocali che fanno presa istantaneamente. Belle le interazioni fra organo e violino e scintillanti le note del piano che vibrano in questo brano agile e versatile che nella sua ampia estensione gira benissimo. Difficile non far spezzare l’intesa con l’ascoltatore dopo una simile prova e una traccia semplice come “As the Crow Flies” sembra essere l’epilogo migliore per un sipario che cala su un’opera preziosa. Anche qui troviamo particolari interessanti e suoni che non smettono di emozionarci. Che amiate i Big Big Train o che non li apprezziate per motivi che non riuscirei a comprendere sappiate che qui stiamo al di sopra della loro pur alta media con un album, il decimo in studio della loro lunga carriera, che esprime al meglio le loro doti di compositori ed interpreti.
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