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BIG BIG TRAIN Far skies deep time English Electric Recordings 2010 UK

Da Cenerentola del New Prog inglese a regina del prog sinfonico e romantico. Questa è la metamorfosi di cui si sono resi protagonisti i Big Big Train, che di antico conservano soltanto il duo storico Greg Spawton/Andy Poole, registi di un vistoso e vincente restyling che ha dato nuova vita e nuova credibilità alla loro creatura. Il grande album della consacrazione è stato lo splendido “The Underfall Yard”, che ha visto anche l’ingresso di un nuovo e dotato cantante: David Longdon, la cui timbrica ed il cui stile calzano a pennello con l’elegante sinfonicità della musica. Non credo che avrete mai l’onore di vedere i Big Big Train su un palco perché si tratta essenzialmente di un animale da studio. Più di ogni altra cosa qui valgono le idee di Spawton e la capacità dei musicisti di dare risalto con ottime performance ed arrangiamenti attentamente studiati ai suoi spartiti. Il punto di partenza per questo nuovo album è il già citato “The Underfall Yard” di cui viene a ripetersi la formula, forse con una maggiore omogeneità di impasto dei vari ingredienti. Il gioco viene ancora più semplice per il fatto che la band si misura qui su distanze più corte: si tratta infatti di un mini CD a tutti gli effetti, della durata di 41 minuti distribuiti su 5 tracce, che il gruppo ha voluto realizzare a cavallo fra l’opera già pubblicata ed il nuovo lavoro prossimo venturo. Una specie di antipasto insomma. Pur nella sua brevità questo album è un’opera a sé stante che non solo riesce a reggersi saldamente sulle proprie gambe ma assume altresì una certa significatività artistica e lo dimostra anche la cura estrema nei dettagli, come pure la realizzazione dell’elegante package, comprensivo di illustrazioni, testi e copertina cartonata apribile. Troviamo ancora diversi ospiti che offrono il loro contributo, come Martin Orford che suona le parti soliste di tastiera in “Fat Billy Shouts Mine”, il session-man Danny Manners al basso e Tony Müller (già tastierista della band dal 1995 al 2001) al piano su “”British Racing Green”. Nick D’Virgilio è sempre presente e compare invece fra i musicisti fissi. Non vi è l’orchestra questa volta ma bisogna dire che la strumentazione appare assai ricca soprattutto grazie a Longdon che, oltre a cantare, si prodiga con flauto, mandolino, fisarmonica, vibrafono, banjo, tastiere, percussioni e Theremin.
Se avete amato “The Underfall Yard” direi che è perfettamente inutile continuare a leggere questa recensione perché questo album ne è una sorta di bella appendice. Per gli altri posso aggiungere che il sound è perfettamente avvolgente, curato e ricco. Le canzoni sono costruite su melodie potenti, impreziosite da una interpretazione vocale assolutamente fantastica. Longdon ha un’ugola decisamente dotata e riesce ad imprimere autentico sentimento alle parole dei testi, anch’essi molto belli. Ovunque sento i Genesis, soprattutto quelli di “Selling England”, e in alcune occasioni i riferimenti si fanno persino puntuali, come nella già citata “Fat Billy Shouts Mine” che più volte mi fa saltare all’orecchio le note di “The Cinema Show”. Il legame con i Genesis si manifesta ancora più esplicitamente con la traccia di apertura, “Master of Time”, la cover di un pezzo di Anthony Phillips presente come bonus track sulla ristampa di “The Geese and the Ghost”. Nella sua versione originale si trattava di un brano semi-acustico molto intimistico e non completamente sviluppato mentre in questa nuova veste esplode letteralmente grazie a tinte musicali decise e arrangiamenti particolareggiati, come se i contorni di un disegno in bianco e nero venissero invasi da tanti colori. E’ molto bello perdersi fra i particolari di questa traccia che vanno dagli inserti di Mellotron a qualche arpeggio appena accennato del banjo, molto originale, al flauto decisamente Genesisiano. Nella successiva “Fat Billy Shouts Mine” i cori leggeri ricordano vagamente gli Yes ed il cameo di Orford si incastona perfettamente nell’ambito del pezzo come una pietra preziosa al centro di un anello. La centrale “British Racing Green” è la traccia più breve e prende le forme di una ballad soft-jazz in cui la voce di Longdon si fa morbidamente sussurrata. Il pezzo, che fa riferimento al Natale, è una sorta di sosta per riprendere il fiato prima del grande finale dato dalle successive due canzoni, la vivace e jazzy “Brambling”, in cui la voce sembra quasi quella di Jeff Buckley, ma soprattutto la lunga ed epica “The Wide Sea”, un pezzo che a pieno diritto poteva benissimo essere incluso su “The Underfall Yard”. A questo punto è chiaro che se amate certe sonorità non potrete fare a meno di procurarvi questo album che riempirà piacevolmente l’attesa verso un nuovo e spero altrettanto entusiasmante capitolo di questa band che si è riscoperta grande.


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Jessica Attene

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