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La creatura di Greg Spawton, unico rimasto dei fondatori della band, nell’ormai lontano 1990, è una macchina da guerra e macina album su album; proprio mentre ci accingiamo a scrivere e a metabolizzare questo “Common Ground” viene annunciata una nuova uscita per cui toccherà attendere pochi mesi. Essendo oramai una band internazionale, con Rikard Sjöblom e Nick D'Virgilio inseriti da tempo nel quartetto pensante, immagino che durante le riunioni di session e di composizione in cui riescono a riunirsi nello stesso luogo, venga fatta una full immersion da cui scaturisce materiale per due album… e forse anche di più. Ciononostante la band ha sempre comunque mantenuto forte il legame con l’Inghilterra, le sue tradizioni, i disagi e le ambizioni della sua gente, e questo legame lo trovavamo di volta in volta nell’esaltazione delle gesta di eroi, più o meno conosciuti, e situazioni rimarcabili della storia del proprio paese. Non si trattava tuttavia di concept album né di album a tema, salvo forse la coppia “English Electric” di alcuni anni fa. Questo legame è forse venuto ad allentarsi con questa nuova release che in alcune delle tematiche trattate sembra voler prendere altre strade. E’ inutile ricordare come ogni nuova release dei Big Big Train venga accolta con grande interesse da tutti (o quasi) gli appassionati di Prog, costituendo un evento che finora difficilmente ha deluso le attese. La formula musicale è ben nota e si mantiene ancora una volta su un Prog sinfonico in bilico tra i dettami di Genesis & co. ed un new Prog elegante e raffinato, con melodie sempre azzeccate e con numerose concessioni ad arie di maggior respiro mainstream. Il brano d’avvio, “The Strangest Times”, è ritmato, brillante e trascinante ma tocca un tema assai delicato e quanto mai contemporaneo, ovvero l’impatto dell’epidemia Covid-19 sulla popolazione inglese, con i periodi di lockdown che si sono susseguiti e le paure ed incertezze che la situazione portava con sé, assieme al forte desiderio di ritorno alla normalità. Le liriche e la voce di Longdon sono maestre nell’accompagnarci nei cinque minuti di questo brano intenso ma orecchiabile che ci fa subito capire che ci dovremo aspettare un album dalle caratteristiche decisamente meno pastorali rispetto ai lavori immediatamente precedenti. La susseguente “All the Love We Can Give” è a firma di D’Virgilio (sua è la voce solista). L’avvio del brano è un po’ sottotono (è proprio il caso di dirlo, vista la tonalità profonda della voce) ma progressivamente va a crescere, non disdegnando di ripercorrere alcuni sentieri tracciati già dagli Spock’s Beard di Nick, con influenze anche di Asia e Toto, con cori ed orchestrazioni molto catchy. Molto bella anche l’interazione tra chitarra e batteria della parte centrale. “Black with Ink” è un brano rockeggiante che vede affiancare varie voci a quella di Longdon, tra le quali spicca quella di Carly Bryant. Brano un po’ così così ma un ritornello efficace ed alcune belle parti strumentali nella seconda parte riescono a risollevarne le sorti. “Dandelion Clock” è una ballad che ci riporta ai BBT degli ultimi album; il cantato di Langdon qui ricorda molto Peter Gabriel ed il brano è piuttosto semplice ma delizioso… anche se l’utilizzo ripetuto dei coretti rischia di scontentare molti ascoltatori. La parte centrale dell’album è occupata da due strumentali: la breve “Headwaters”, costituita da un solo di piano molto soffuso, e la più lunga e decisamente più Prog “Apollo” che in alcuni tratti non può fare a meno di ricordarmi addirittura “Gravità 9.81” degli Arti e Mestieri. Brano brillante e decisamente gradevole; un ottimo intermezzo in attesa dell’ultima parte dell’album. La title track appare come un tipico brano Big Big Train, con belle parti strumentali, un cantato efficace con i soliti cori in background, un’orchestrazione di ottimo livello e un bel finale in crescendo. Brano ordinario, se così si può dire, piacevole ma interlocutorio per introdurre i successivi 15 minuti di “Atlantic Cable”. Questo è un brano delicatamente complesso, ricco di sfaccettature e con poche concessioni stavolta alle tentazioni pop e mainstream. Le sue ambiziose caratteristiche e l’ottima realizzazione lo rendono sicuramente il momento di punta di questo lavoro ma personalmente lo ritengo un po’ al di sotto dei classici epics della band. Di fatto il lungo brano va a collegarsi col successivo (e conclusivo) “Endnotes”, riflessivo e melodico, con morbide linee di piano che sostengono discretamente il cantato, spesso corale e molto emozionale. Il solito buon album dei Big Big Train… e non è sicuramente poco… ma buono non vuol dire stupendo, almeno per quanto mi consta. Se è vero che oramai da tempo le produzioni della band sono di altissimo livello in quanto a registrazione, arrangiamenti, pulizia dei suoni, orchestrazioni etc., è vero anche che l’uscita cadenzata di un album dietro l’altro e forse la perdita di freschezza e creatività penalizza un po’ la resa qualitativa? Il punto interrogativo è d’obbligo e ognuno potrà dare la risposta che preferisce. Per quanto mi riguarda ammetto che questo nuovo lavoro non mi ha suscitato forti emozioni… sicuramente meno rispetto a “Folklore”, per dirne uno, l’ultimo che mi abbia sinceramente entusiasmato.
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