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Trovate così scontata la massiccia presenza di “English Electric (part one)” nelle classifiche e nelle preferenze degli ascoltatori? Io ad essere sincera no. Per lo meno non in modo così netto, ma così è stato e giudico questo risultato in relazione all’affabilità e alla brillantezza di una proposta discografica ben cesellata che fa leva sì sulla melodia e su vecchi déjà vu ma che risulta al tempo stesso piacevolmente convincente. E’ certo che l’album è un perfetto prodotto di songwriting e di sintesi in studio e che il gruppo difficilmente lo vedremo suonare dal vivo questi pezzi, ma riconosciamo alla coppia Greg Spawton/Andy Poole il giusto merito di aver miracolosamente rigenerato un gruppo forse un po’ anonimo agli esordi e di averlo trasformato in qualcosa dall’appeal irresistibile. Essendo questa la seconda parte del fortunato e già citato “English Electric”, come giustamente il titolo evidenzia in modo esplicito, dobbiamo vedere questo album come il naturale prolungamento dello stesso o come una sua b-side. La squadra è quindi la medesima e comprende, a parte lo storico e già citato duo, Nick D’Virgilio alla batteria, Dave Gregory alla chitarra elettrica e la splendida voce di David Longdon, senza la quale le ultime produzione dei Big Big Train non sarebbero quelle che sono, parliamoci chiaro. Questo nucleo accoglie poi in pianta stabile Danny Manners al piano e al contrabbasso, già presente in passato nella schiera di numerosi ospiti che forniscono, anche qui, il sostegno orchestrale alla musica del gruppo. Le canzoni narrano ancora storie di uomini e donne comuni d’Inghilterra con la loro semplice quotidianità ed i loro sogni e anche la musica, così come i testi suggeriscono, è piacevolmente, ma non ostentatamente British. Questo concetto traspare perfettamente in “Permanent Way”, espressione vittoriana con la quale si indica la ferrovia e che allo stesso tempo sembra alludere alle misteriose interconnessioni che legano le persone in lungo e in largo per la nazione. Sono queste persone che con le loro storie e il loro lavoro hanno forgiato l’Inghilterra, modellandone i costumi ed il paesaggio. Non a caso il brano contiene una citazione di “The First Rebreather”, la traccia di apertura di “English Electric (part one)”, come a voler creare un effetto di continuità fra le vite dei vari personaggi che si sono succeduti nei due album. Le loro storie sono al centro di tutte le canzoni e le liriche ne disegnano poeticamente i dettagli. Così in “Swan Hunter” ecco un costruttore di pesanti navi a vapore che passeranno alla storia, nel cantiere di Neptune Yard, “Worked Out” parla di una comunità di minatori, in “Keeper of Abbeys” è racchiusa la storia di un custode i cui tratti si confondono con le austere figure in pietra dell’abbazia, in “Curator of butterflies” osserviamo la curatrice di lepidotteri in un museo di storia naturale. Dal punto di vista strettamente musicale, “East Coast Racer”, la prima traccia, è forse quella più vicina al precedente album per la sua intensità, per la sua dolce complessità, per i sofisticati arrangiamenti sublimati da raffinate visioni sinfoniche e molli tentazioni pop. L’album offre qui, subito, i suoi massimi potenziali, con un pezzo che supera abbondantemente i quindici minuti. Ritroviamo l’interpretazione un po’ Gabrielliana e un po’ alla Collins di Longdon, le sonorità vintage e quelle orchestrali, timide ma efficaci aperture jazz e ampie orchestrazioni con fiati da big band, coltri di archi sullo sfondo e tanti piccoli particolari classicheggianti in una ricetta che abbiamo ormai imparato a conoscere. C’è però da dire che, mentre il precedente album riacquistava potenza sul finale, questo qui, pur in presenza di diversi sussulti, nella sua globalità tende delicatamente e progressivamente a diluirsi con una prevalenza di suggestioni pop o Beatlesiane o anche con riferimenti alle opere solistiche di Collins. Si tratta pur sempre di musica elegante e sofisticata e non mi sono sognata di certo di bollarla in modo frettoloso, sarebbe quasi come pretendere di conoscere i ricchi fondali della barriera corallina senza immergersi. Si può benissimo lasciare che la musica scivoli via, e devo dire che l’effetto globale è quello di una generalizzata semplicità che dà ampio risalto alla forma della canzone ma, a vedere bene, ritroviamo sotto questo velo una cura minuziosa e maniacale per le timbriche, le sonorità, gli arrangiamenti, messi a punto in modo tale che non ci sia né di più né di meno rispetto a quello che serve. Sicuramente di “Swan Hunter” è facile che vi rimangano nell’orecchio i cori ammiccanti, ma vi assicuro che la matrice strumentale è perfetta e ogni singolo strumento, dal banjo, ai violini, al trombone, può essere percepito in modo cristallino. “Worked Out” ha in sé una dolcezza Genesisiana che ci riporta al periodo post Gabriel, con suoni rubati però al periodo più classico. Con la centrale “Leopards” la musica si allenta ulteriormente in una ballad ricca di sentimentalismo che vede cedere il tessuto orchestrale in favore di soluzioni più marcatamente pop. Se ancora una volta in “Keeper of Abbeys”, con i suoi cori veloci e allegri, sembra prevalere un’impostazione pop che ci riporta al repertorio solista di Collins, il finale smentisce questa tendenza recuperando un po’ di complessità e colorazioni davvero particolari grazie al sitar elettrico con gli archi sullo sfondo che disegnano melodie speziate e dal sapore indefinito e misterioso. E’ ora la volta della già citata “The Permanent Way”, dilatata sì all’inizio, ma con guizzi sinfonici che ci riportano inevitabilmente all’album gemello. La durata del pezzo è sugli otto minuti, quindi in aumento rispetto ai precedenti, e “Curator of Butterflies” si mantiene su questi valori, anche se all’inizio somiglia più che altro a un lento da danzare guancia a guancia con suggestioni che ricordano quasi certi Bee Gees, il ritmo della batteria qui si regolarizza e scompare quasi sullo sfondo e tutte le emozioni sono alleggerite da un contesto musicale in cui si perdono un po’ tutti i dettagli ed è come se il pezzo si portasse via dolcemente tutte le storie di questa saga. Immagino che qualcuno potrebbe rimanere un po’ deluso da questa scelta ma, ripeto, nonostante i discreti allentamenti e le smagliature la bellezza dell’album non ne viene scalfita, soprattutto se lo consideriamo, come ho detto all’inizio, come la prosecuzione dell’altro. La mia personale idea è che il materiale musicale elaborato dal gruppo fosse un po’ troppo per un disco solo e troppo poco per due album interi e forse questa diluizione è dovuta al fatto che non è stato tagliato dal progetto praticamente nulla. Una sintesi maggiore avrebbe permesso di tirare fuori un’opera più compita ma non starei a farmi tutti questi problemi, visto che la musica è comunque bella, comunque godibile e tutto sommato in linea con lo stile che ha premiato il gruppo con i suoi ultimi dischi. Scommetto quindi che anche questa seconda parte otterrà i suoi spazi fra le preferenze degli ascoltatori. Il tempo ce lo dirà.
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