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Nuovo album in studio (il nono ufficiale) per i Big Big Train, ma solo il quarto (a cui si aggiungono 3 EP, un live in studio ed un dvd) che va ad iscriversi alla seconda parte della loro carriera che coincide con l’ingresso nella line-up del cantante David Longdon, del chitarrista Dave Gregory e del batterista Nick D’Virgilio. Con l’aggiunta negli anni successivi del tastierista Danny Manners ed ultimamente di Rachel Hall (violino, viola, violoncello) e di Rikard Sjöblom abbiamo la formazione che ha dato alle stampe questo “Folklore”. Da band di piacevole ascolto, ma nulla di più, la creatura di Andy Poole (chitarra acustica e tastiere) e di Greg Spawton (basso), i due membri fondatori della band agli inizi degli anni ’90, si è trasformata a partire da “The underfall yard” del 2009 nel gruppo cardine non solo della terra d’Albione ma, probabilmente, dell’intera scena prog internazionale (gli altri nomi li lasciamo a voi…). Merito della perseveranza di Poole e Spawton, certo, ma anche del carisma del nuovo frontman Longdon, delle sue notevoli doti canore e delle sue capacità liriche nonché della grande alchimia che si è creata con i nuovi arrivati. Tanto che, tra un album ufficiale e l’altro sono stati pubblicati 3 EP, “Far skies deep time”, “Make some noise” e “Wassail”, tutti di qualità assoluta (soprattutto il primo) a conferma dello stato di grazia in cui si trova la band. Con queste doverose premesse, ecco che “Folklore” non può che suscitare attesa e curiosità non solo tra i fan, ma anche tra coloro che, frettolosamente e superficialmente, hanno “bollato” i ragazzi di Bournemouth (dove mossero i primi passi) come l’ennesima Genesis-clone-band, seppur di valore. Ed i Big Big Train non tradiscono, almeno in parte, le aspettative con questi 9 brani (uno dei quali già edito) che vanno a comporre l’ultimo lavoro discografico. Sempre grande attenzione è posta al packaging, davvero ben fatto. Vediamo di addentrarci ora nelle composizioni presenti in “Folklore”. Brani dalle atmosfere molto british in cui le istanze folk vengono talvolta accentuate, senza dimenticare ovviamente la componente rock, sempre ben presente, a cui si aggiungono massicce dosi di archi ed ottoni, il tutto velato da una sottile malinconia di fondo. Sopra tutto spicca il gusto di una band che, partendo da una tradizione seventies, ha saputo con gli anni creare un sound personale, aggiustandolo qua e là ad ogni nuova pubblicazione, subito riconoscibile e sempre ispirato. L’unico appunto (ma potrebbe essere un pregio per numerosi ascoltatori) che ci sentiamo di muovere è che in “Folklore” manca un brano “top” che si elevi sopra gli altri, trascinandoli quasi, a favore di composizioni omogenee che piano piano vi conquisteranno. Col tempo, appunto. Alla title-track l’onore di aprire l’album: una breve introduzione di archi ed ottoni, poi inizia il cantato di Longdon ben sostenuto dai cori degli altri componenti. Il violino della Hall accentua la vena” campestre” del pezzo, dal bel refrain, anche se non mancano le variazioni sinfoniche. “London plane” si presenta a tinte color pastello, soffusa ed evanescente e così ricca di fascino, soprattutto nei primi, splendidi, minuti. Poi il brano si accende ed “elettrifica” per qualche istante, ma il flauto, il violino e la voce di Longdon ci riportano ben presto ai lidi acustici iniziali. Il finale è in crescendo con la chitarra di Gregory a prendersi il proscenio. La struggente performance del frontman ci accompagna in “Along the ridgeway” anch’essa dai toni soavi ben esplicati dagli archi e dai fiati. La breve “Salisbury giant” è più movimentata con una ritmica spezzettata e con un bel lavoro dello Hammond. Ottima davvero “The transit of Venus across the sun”: lunga introduzione di stampo cameristico, chitarra acustica, pianoforte e la voce altamente evocativa di Longdon a cui fanno seguito il ritornello a più voci e dei riusciti stacchi orchestrali. Viene poi riproposta “Wassail”, dall’EP omonimo dello scorso anno, un bel brano più spensierato e ritmato dei precedenti con un refrain di facile presa e, perché no, radiofonico. “Winkie” è il brano più heavy della raccolta, con una ritmica possente, un bello Hammond di contorno ed una chitarra molto incisiva. Anche il vocalist si adegua risultando più “cattivo” (a tratti perlomeno). Purtroppo l’assenza di una melodia memorabile inficia un poco il comunque notevole risultato finale. Buoni stimoli arrivano anche da “Brooklands”, con un bel drumming di D’Virgilio, le solite raffinate tessiture doc con violino e flauto a sollevare più di un brivido e melodie ispirate. Di notevole pregio la sezione centrale, una cavalcata ed un rincorrersi strumentale veramente splendido. Dal piglio più pop la traccia finale, “Telling the bees”, ricercata al solito, ma priva della scintilla decisiva. “Folklore” è, dunque, un album più che buono, a tratti anche ottimo, mancante , come già detto, di quel brano “crack” che lo renda indimenticabile. Fare meglio dei due capitoli di “English electric” e fors’anche di “The underfall yard”, era oggettivamente impresa titanica, ma i Big Big Train riescono comunque a confezionare un album di tutto rispetto che crediamo possa soddisfare anche i numerosi fan italiani (notoriamente ipercritici…) della band. Certo l’asticella e le aspettative nei confronti del gruppo inglese, uno dei migliori in circolazione non dimentichiamolo, sono sempre più alte e ripetersi, o meglio migliorarsi (il verbo “ripetersi” soggiace ad interpretazioni non sempre benevoli…) sarà sempre più complicato. Ma noi siamo fiduciosi…
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