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Piccolo riassunto: Steve Hackett è un grande. Chi non lo conosce non dovrebbe neppure essere qui a leggere queste righe. Non lo merita.
Nella sua produzione, in gruppo o solista, pochissimi i momenti di cedimento e tutti raccolti in alcune cose degli anni ’80. Raggiunto un grado di maturità, professionalità e stile, non ha fatto altro che cavalcarlo a spron battuto, sfornando uno dopo l’altro, grandi lavori. E se c’è chi lo ha apprezzato e poi questo stile “standardizzato” lo ha stufato, ecco svolte su svolte, dal blues, all’acustica, alla classica, al rock e al prog di nuovo. sempre inconfondibile nel suono di quel suo schitarrare nella maniera più intelligente che si possa volere.
Ora esce questo Wild Orchids e se volete un giudizio veloce, veloce è per una buona parte una ciofeca.
E’ un lavoro dove troviamo brani di grande qualità (non molti in questo caso) a cose di dubbio gusto, passando in rassegna vari generi per una scaletta che sembra appiccicata con lo scotch.
A differenza di quanto è successo per il recente Metamorpheus la presenza dell’orchestra non sempre ha giovato ai brani, che nel complesso, danno l’idea di una fase altalenante della verve compositiva di Hackett. Questa slegatura complessiva è maggiormente evidenziata da una scelta percussiva aspra, pesante e ritmicamente troppo decisa che spesso appare fuori luogo e oltre le righe e che in pratica rappresenta il grande difetto di Wild Orchids, fino ad arrivare a snaturarlo e rovinarlo.
Il CD esiste, come accadde già per “To Watch The Storms” nel 2003, in versione standard con 13 brani e in versione special con 17 brani, che è quella in esame.
L’inizio del CD non è dei migliori: due brani ritmicamente molto decisi e dai sapori eterogenei dove si sentono atmosfere alla “Rondò Veneziano”, sonorità pseudo indiane orientali, pop rock leggerino e danzabile. Poi c’è “Down Street” il brano più lungo del lavoro con sette minuti in parte di sapore pop wave anni ’80, ma con cantato (parlato lirico) strascinato sulle ottave basse e in parte con temi da film noir anni ’50. Per nulla riuscita la cover di Dylan “Man in the long black coat”. Come “Cedars of Lebanon” che dopo un avvio soffuso e piacevole, sbotta ancora in violini dalle atmosfere troppo easy e danzerine”. Qualche mediocre hard blues, già fatto e ritritato come “Ego and I” e altri rock un po’ tirati sulle note chitarristiche, con risultati ormai troppo risaputi.
Quindi, cosa salviamo? “A Girl called Linda” nelle intenzioni doveva (poteva?) essere un brano in stampo Beatles, la riuscita non è male e l’assolo di flauto, vagamente sudamericano, è molto melodioso, così come il finale acustico. “Set your compass” dove saltano alle orecchie gli arpeggi classici di Voyage of the Acolyte di Trick of the Tail, ecc. “She moves in memories" che troviamo a metà strada tra le soluzioni del precedente Metamorpheus e alcune sonorità di Defector. Le atmosfere melanconiche e ben centrate di “Wolfwork”, il piano ben suonato e di ispirazione jazz su “Howl”. Il finale di chitarra acustica di sapore mediterraneo con il brano “Until The Last Butterfly”.
Insomma da un artista del calibro di Hackett aspettarsi tanto è d’obbligo. La delusione di questo lavoro è che, alla fine dei conti, occorre andare cercare cosa poter salvare. E questo non ci fa bene. Dire tutto questo mi costa fatica. Ho dovuto raccogliere molto coraggio per riuscire ad essere sincero ed obiettivo nei confronti di un artista che, salvo alcune cose “leggere” degli anni ’80 non mi aveva mai deluso. Oggi la situazione è questa e la speranza è che la storia non si ripeta.
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