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La prima frase nota di Steve Hackett è quella legata all’annuncio che gli diede modo di far parte di quella favolosa, unica e irripetibile esperienza musicale comunemente conosciuta con il nome Genesis. La frase in questione (e chi non la conosce?) parlava di intenti non stagnanti e questo, credo, sia stato l’imperativo di tutta la sua carriera, che l’ha visto passare con disinvoltura dall’elettrico all’acustico, dal rock alla classica, passando per il blues, il pop, la teatralità, mantenendo intatto lo spirito progressivo, innovativo e di ricerca. Tutto questo anche negli ultimi anni e, tra picchi elevatissimi e, talvolta, meno alti, ha proseguito con coerenza unica la sua carriera musicale.
Questa nuova prova, pur con lo stesso spirito di base, si distacca molto dai lavori precedenti soprattutto perché questa volta i brani, tranne 3 su 13, non sono di composizione propria ma di grandissimi autori del passato. La scaletta prevede quindi, oltre ai suddetti tre dello stesso Hackett, sei brani di Bach, uno di Byrd, uno di Barrios, uno di Granados ed un brano della tradizione spagnola. Non compare come compositore, ma l’intera opera è in pratica un grande omaggio a chi la chitarra ha avuto il coraggio e la forza di reinventarla, consentendole di assurgere a una posizione parificata agli altri strumenti classici, quando prima era relegata solo parti secondarie e cioè Andres Segovia, ed è proprio a lui che Hackett dedica anche la più bella composizione per chitarra che abbia mai scritto: “The Fountain Suite”, matura, piena, sentita e precisa come non mai.
Non c’è da dire molto dal punto di vista musicale, la garanzia del nome è rispettata e il suo tocco professionale e coinvolgente è ormai cosa riconoscibile, anche con l’esecuzione di musica d’altri. Non possiamo trovare, tra questi brani, tracce di prog, se non nel concetto musicale di sperimentazione nella sua più ampia accezione: il disco è, nell’idea e nel risultato, un disco di rivisitazione classica e anche le composizioni proprie sono in perfetta linea con il progetto. In queste “sonate” c’è tutto quello che Hackett caratterialmente è: umiltà, rigore, passione, tormento, frenesia, intelligenza e rispetto, ma soprattutto credibilità, quella dote che salta fuori dalle personalità vere e che sono vere in qualsiasi cosa facciano.
Tra i brani eseguiti vorrei citare la splendida triade bachiana d’apertura “Gavottes/Courante/Jesu Joy” dove la tecnica salta fuori unita alla capacità di estrarre melodia in maniera così naturale. Particolarmente toccante anche la sonata di “La Maya De Goya” che chiude il disco.
Non credo (ma spero) che il progster medio sia orientato verso questo prodotto. Sarebbe bello che il disco venisse comprato con la consapevolezza di avere in mano un disco di grande spessore musicale, degno e pregno e non perché in copertina c’è il nome di Hackett e il disegno della moglie Kim.
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