|
Prog, heavy prog, world music, blues, jazz, classica, musica circense, valzer... Questo è tanto altro ancora si trova nel nuovo album elettrico di Steve Hackett. Da anni il chitarrista è un fiume in piena e propone dischi e brani nei quali fa confluire gli indirizzi stilistici più disparati. La sua voglia di esplorare è ormai in questa direzione, con contaminazioni di ogni tipo, tra generi, culture, strumenti, timbriche... I risultati sono sempre positivi, a volte anche ottimi, ma mai eccellenti. E "The circus and the nightwhale" non fa eccezione. Scorre bene, in maniera gradevole, senza attimi di noia. E quando Steve si lancia nei suoi assoli più tipici è sempre una gioia per le orecchie. Le cose che mancano sono due. Una è l'effetto sorpresa. Chi segue l'artista nella sua carriera solista non può più meravigliarsi anche al primo ascolto di un brano nel quale in pochi minuti vengono proposte mille variazioni. Si sa anche che Hackett è capace di proporre musica di qualità, di far incrociare gli strumenti elettrici tipici del prog insieme ad altri acustici ed etnici, di passare da sensazioni di pura gioia ad atmosfere più cupe e viceversa. Al contempo, manca quel guizzo, quel quid, che permetta al lavoro di svoltare, di prendere letteralmente il volo lasciando segni memorabili. Come sempre, le potenzialità ci sono, ma alla fine si resta nell'ambito della piacevolezza, di un compito assolutamente ben svolto, ma privo di lampi che restano bene impressi nella mente. “The circus and the nightwhale” è un concept con forti connotati autobiografici e ruota attorno al personaggio di Travla, proponendo in maniera romanzata le esperienze di Steve. Ne vien fuori un nuovo viaggio che cattura l'interesse, perché siamo al cospetto di un artista che non ha minimamente perso una sorta di tocco magico, sia quando si lancia verso fiammate elettriche, sia quando punta col suo tocco raffinato verso eleganti sentieri acustici. E sono molteplici gli spunti degni di nota. Soprattutto quei brani a prevalenza strumentale (“These passing clouds”, “Breakout”, “All at sea”,”Into the nightwhale”, la conclusiva e acustica “White dove”) che in una manciata di minuti mettono in mostra tutte le qualità del chitarrista. Poi si può trovare il brano più marcatamente jazz (“Found and lost”) e quello più legato al blues-rock (“Enter the ring”), ma nella maggior parte troviamo quella contaminazione totale di cui abbiamo già parlato. In tutto questo, Steve è coadiuvato da un buon numero di musicisti di livello, che vanno dai suoi soliti collaboratori Roger King, Amanda Lehmann, Nad Sylvan, Rob Townsend, Jonas Reingold, Craig Blundell, il fratello John e ai quali si aggiungono nomi comunque noti come Nick D’Virgilio, Django Degenhardt, Benedict Fenner, passando per il suonatore di tar Malik Mansurov. Alla fine si ritorna sempre a certi discorsi, trovandosi di fronte ad un disco che il 7 pieno lo merita, ma, come i suoi predecessori, lascia la sensazione che poteva arrivare a voti più elevati. Non so se tutto ciò sia dovuto alla voglia di strafare mettendo tanta carne al fuoco, alla voglia di proporre continuamente nuova musica, al fatto di dover comporre e registrare nei piccoli spiragli di tempo libero che trova tra i suoi molteplici impegni. Fatto sta che l'Hackett di oggi è questo. Prendere o lasciare. Una classe infinita, ma un po’ dispersivo. Un artista capace di pubblicare lavori più che dignitosi, che meritano attenzione e che arricchiscono una nutrita discografia senza elevare di molto una più che discreta media qualitativa. Si può chiedere davvero di più ad un settantaquattrenne ancora in forma e voglioso di portare avanti la propria carriera senza rinnegare un passato glorioso (a differenza di altri suoi colleghi…)?
|