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STEVE HACKETT Out of the tunnel’s mouth Wolfwork Records 2009 UK

E’ nato prima l’uovo o la gallina? La risposta per me è chiarissima, ma qui non c’entra. Il riferimento proverbiale è inserito perché sono mosso ad una certa ilarità nel leggere certi recensori o commentatori che pretendono di sentire nel nuovo disco di Steve Hackett momenti avvicinabili al new prog inglese, magari senza prendere in considerazione, all’opposto, che il 90% dei chitarristi di new prog si siano ispirati proprio a lui. Andiamo avanti. Risolte positivamente le beghe legali, conseguenti al divorzio con Kim Poor, che altrimenti avrebbero visto il nostro beneamato succube persino nei diritti d’autore e nella proprietà intellettuale dei dischi, ecco la nuova fatica discografica, chiamata, non a caso “Out Of The Tunnel’s Mouth”, per la nuova etichetta, la Wolfworks Records, tutta sua e tratta dal nome di un brano di “Wild Orchids”. Disco fortemente ispirato e profondo, supera in qualità ogni uscita recente e si piazza ai vertici della produzione di sempre, grazie soprattutto ad una grande attenzione per l’aspetto melodico e per lo sviluppo lirico dei brani. Hackett con un bel nutrito numero di amici vecchi e nuovi si è dedicato in maniera appassionata a questo lavoro, che avrebbe dovuto traghettarlo al di fuori del tunnel. Tra i tanti troviamo Roger King (tastiere) e Nick Beggs (basso e stick) che già lo accompagnarono nell’ultimo tour. Il fratello John al flauto, Ferenc Kovacs, splendido lavoro al violino, Christine Townsend grandissima anche lei (violino e viola), Rob Townsend al sax e poi vediamo spuntare due nomi di quelli, che al pari dello stesso Hackett hanno fatto la storia: Anthony Phillips e Chris Squire. Come ben si può vedere non appare nessuno alla batteria, ma la batteria nel disco c’è. Mistero svelato, alla batteria c’è un tale “Toontrack Superior Drummer® 2.0”, un software, insomma. Inutile parlare di drum machine e ipotizzare cose vetuste come le vecchie batterie elettroniche: qui si tratta di un signor programma che, pure a costo contenuto, inserisce nelle basi la batteria con suoni campionati da vere batterie, tra cui quelle di Chester Thompson e Morgan Ågren, tanto per citarne due. Otto brani per circa 45 minuti con tanta acustica e tanta elettrica. L’opener “Fire On The Moon” venne già presentata nel recente tour. E’ un brano di alti contenuti progressivi, tra pieni e vuoti ricchi di liricità e chiuso da un poderoso solo di elettrica, forse tra i suoi migliori solo di sempre. “Nomads” è un elettroacustico di grande forza intimistica, dai tratti spagnoleggianti, dove Hackett sfodera al meglio la propria tecnica di arpeggio. “Emerald And Ash”, quasi nove minuti, punta sulla differenza umorale dell’inizio melodico e della seconda parte più cupa e dark con strappi tonali e note dilaniate. Nella sua metà un arpeggio a due chitarre con Ant, si trattiene la lacrima a stento: Genesis e magia. “Tubehead” è un brano più aggressivo, soffocante e claustrofobico, perfettamente centrato nello stile elettrico hackettiano. “Sleepers” è il secondo brano dove viene impiegato Ant. Ancora poco meno di nove minuti e ancora una grande progressione. Dalla immensa liricità, drammatica e commovente iniziale un’atmosfera elettroacustica come solo Hackett sa concepire e via via la tensione che sale fino all’esplosivo e dinamico finale, davvero un ottimo brano. “Ghost In The Glass” è un buon brano, nulla di esagerato. Un buon lavoro alla chitarra, ma la traccia è forse più debole in composizione. Analogo discorso per la successiva “Still Water” un mid-blues forse un po’ anonimo, curato nella parte corale, ma complessivamente un po’ superficiale. Chiude bene “Last Train To Istanbul”, con sonorità un po’ déjà-vu tra l’orientale, “Spectral Mornings” e “The Steppes”, con un bel lavoro al sax.
Peccato per il sottoutilizzo del flauto di John Hackett, che in genere riempie di belle atmosfere e, tutto sommato, anche di Anthony Phillips, con il quale però potrebbero nascere altre collaborazioni, e lo speriamo. Il disco ha dalla sua una grande omogeneità e si ascolta di filato con gran piacere, tutto è misurato e ben pensato, senza sbalzi estremi e tenuto entro confini melodici e ritmici senza strabordature, come invece rilevai in “Wild Orchides”. La risoluzione, a suo vantaggio, della causa legale ha sicuramente giovato al tutto e, certamente, anche a noi, che ci godiamo questo bel lavoro.


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Roberto Vanali

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