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Steve Hackett ci ha sempre abituato a sbalzi stilistici e qualitativi all’interno dei suoi album. “At the edge of light”, da questo punto di vista, non si differenzia molto dai suoi predecessori, ma in cinquantaquattro minuti e mezzo l’impressione, tra alti e bassi, è che tali oscillazioni siano più nette rispetto al passato. “Fallen walls and pedestals” è un’apertura splendida di poco più di due minuti, dall’andamento solenne e con il guitar-playing di Steve che alterna quegli slanci solistici a cui siamo abituati e passaggi più ruvidi. Ottimo inizio a cui fa seguito, senza soluzione di continuità, uno dei brani più belli dell’album, “Beasts in our time”: inizio con tastiere che creano un’atmosfera misteriosa, cui fa seguito la parte cantata, delicata, su un sottofondo di chitarra acustica ed ecco poi gli splendidi sviluppi sinfonici, con spunti strumentali davvero da brividi, nei quali si affacciano anche il sax e il flauto, cambi di tempo a go-go e la solita chitarra elettrica a lanciarsi in voli che è un piacere ascoltare. Dopo un inizio a dir poco interessante, con “Under the eye of the Sun” cominciamo a notare quello che sarà il leit-motiv di questo cd: i momenti cantati sembrano non avere il giusto smalto, con melodie che non fanno troppa presa, al punto che a volte subentra un po’ di noia, ma negli stacchi strumentali la classe emerge a tutta forza. Ci si muove tra le tastiere e le orchestrazioni sinfoniche del fido Roger King, i soliti passaggi stravaganti e bizzarri che non mancano mai, interventi di strumenti esotici e quella chitarra con la quale Steve riesce a creare sempre magia e che strappa emozioni in ogni intervento. È impressionante come questo musicista col suo strumento sembra non sbagliare mai un colpo. Conosciamo perfettamente il suo stile e le sue capacità, eppure tutte le volte che diventa lui il protagonista e le sue dita volano sulla chitarra, anche all’interno di canzoni non messe perfettamente a fuoco, riesce ad invertire la rotta e ad incantare con solos, riff e pennellate che è impossibile non apprezzare. E durante l’ascolto queste caratteristiche vengono continuamente a galla, mentre passano in rassegna un pezzo poco ispirato che parte come gospel e vira verso uno strano blues che si fa man mano più aggressivo (“Underground railroad”), sapori d’Oriente (“Shadow and flame”), un po’ di spensieratezza e immediatezza (“Hungry years”). Anche la composizione più lunga del cd, “Those golden wings” che va oltre gli undici minuti, mostra tante sfaccettature e può essere vista come un buon riassunto dell’intero lavoro, tra pregi e difetti. I sapori classicheggianti un po’ mielosi della parte iniziale lasciano il campo, attraverso continui stravolgimenti di tempo e di stile, a parti operistiche maestose, ai continui inserimenti di chitarra con una classe fuori dal comune, sia con i consueti interventi solistici, sia con alcuni sprazzi acustici che fanno un bell’effetto, mentre risultano poco convincenti quei momenti in cui tornano linee melodiche più pacate e semplici. E a dimostrare che le soluzioni più belle sono quelle strumentali ecco l’accoppiata “Descent”-“Conflict”. La prima è una traccia altisonante che ha molto in comune con la sezione “Mars” dei “Pianeti” di Holst, già cara ai primissimi King Crimson; la seconda una breve cavalcata di rock sinfonico su ritmi frenetici. In chiusura troviamo “Peace”, pop-prog romantico intrigante, ma non eccezionale. La grandissima qualità che ancora oggi contraddistingue Steve, come ci preme ancora evidenziare, è quella di essere in grado di cimentarsi in guitar-solos fantastici, anche all’interno di un brano che presenta melodie che non hanno molta attrattiva. È un grosso punto di forza in un album tutt’altro che perfetto, ma per molti potrebbe bastare, perché quei picchi toccano livelli che in pochi sono capaci di raggiungere e ad ascoltare quei timbri, quei suoni, quello stile, che raggiungono vertici di bellezza impressionanti, non ci si stanca mai. Anche se si tratta solo di una certa percentuale dell’intero album.
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