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Esiste ormai una regola non scritta per quanto riguarda la qualità delle produzioni di casa Marillion: più è lunga la gestazione, più l'album è ricco di sostanza. E' stato vero per “Brave” oltre dieci anni fa, ne abbiamo avuto la conferma con l'ultimo "Marbles" ed ora ecco arrivare l’ennesima controprova con un album un po' tirato via in fretta e furia. Perché i Marillion pianificano i loro parti, cosa credevate? Non a caso il curatissimo booklet di questo "Somewhere Else" si chiude con una frase sibillina che ci annuncia per la primavera 2008 l'uscita dell'album numero quindici, alla faccia dell'ispirazione e della spontaneità artistica.
Perché ho parlato di un album messo insieme frettolosamente? Perché è ovvio che le idee qui contenute in alcuni casi non siano state sviluppate in modo adeguato, così come alcune soluzioni in fase di arrangiamento ci fanno rimpiangere amaramente un'opera molto più curata e coerente come "Marbles". La sensazione di avere a che fare con un prodotto troppo eterogeneo è simile a quella provata dopo il primo ascolto di "Marillion.com", ossia una quantità modesta di carne al fuoco ma dai sapori contrastanti, quasi a voler occultare la scarsità delle porzioni con la varietà.
Abbiamo quindi dinanzi un album da ignorare a cuor leggero? Ma no, non sarei così cattivo, alla delusione iniziale segue comunque un vago senso di appagamento dovuto al fascino di alcuni brani isolati, alle emozioni che la voce di Hogarth e la chitarra di Rothery riescono egualmente a donare, nonostante siano entrambe frenate dalle briglie della ripetitività e di una certa aridità compositiva. Cos'è dunque che si salva? Occorre una manciata di ascolti per rendersene conto, ma brani come "The other side", "A voice from the past" e la title-track possono essere annoverati - nonostante tutto - tra le cose migliori del (recente) repertorio marillioniano, così come non sono da scartare le ballate “Thank you whoever you are” e "The last century for man", che si riallacciano agli episodi migliori di un album un po' sottovalutato come "Anoraknophobia".
Si tratta di canzoni di media durata che contengono molti degli ingredienti che hanno fatto dimenticare a molti di noi Fish e gli anni '80, ossia un'interpretazione sentita ed emozionale, sonorità moderne imparentate strettamente con il rock alternativo dell'ultimo decennio, chitarre melodiche quanto basta a strapparci un sorriso di approvazione se non a gioire di alcuni passaggi, malgrado la formula sia ormai pericolosamente logora e le tastiere di Mark Kelly siano sempre più marginali nell'economia sonora. Di innovativo, dispiace dirlo, niente di niente.
L'altra faccia della medaglia, quella meno appetibile, è costituita dallo scontatissimo rocker "Most toys", l'altro singolo "See it like a baby" col suo refrain ripetuto ad libitum e composizioni incolori come "No such thing" dal forte sapore di riempitivo. La chiusura affidata alla dolce perla acustica "Faith" lascia perlomeno un buon sapore... nelle orecchie, ma non si può ignorare il fatto di aver concluso l'ascolto di un disco che lascia molte promesse non mantenute nonché alcuni interrogativi sulle intenzioni della band (sono ancora in cerca dell'hit-single o cosa?).
In definitiva, un album interlocutorio che in barba ai suoi alti e bassi riesce ugualmente a farsi strada spesso e volentieri verso il mio lettore; in ogni caso aspettatevi qualcosa di simile ad un "This strange engine" del nuovo decennio, episodio poco più che marginale nella copiosa discografia, ed auguratevi che il nuovo parto sia posticipato almeno al 2010!
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