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E’ ovvio che la musica rispecchi in qualche modo la personalità di chi la suona e compone ma trovare un punto di equilibrio fra personalità forti e diverse e che sintetizzi allo stesso modo le visioni di ognuna di esse non è affatto cosa scontata. Kaukasus è il perfetto punto di intersezione fra i mondi musicali di Ketil Vestrum Einarsen (Jaga Jazzist, Motorpsycho), Rhys Marsh (The Autumn Ghost, Opium Cartel) e Mattias Olsson (Änglagård, White Willow) e rappresenta, come vedete, una specie di supergruppo scandinavo dove confluiscono stili diversi alla ricerca di un linguaggio musicale originale. Ecco che, pur prendendo molto dai singoli gruppi appena citati, questo album, per la sua particolarità, non riuscirebbe ad entrare nella discografia di nessuno di essi. Elemento costante è un sentore oscuro e brumoso che ci riporta al progressive rock nordico di nuova generazione con sonorità piacevolmente vintage ma dal taglio assai moderno e sofisticato. Vi sono, allo stesso tempo, arricchimenti sinfonici, spesso di matrice Genesisiana, ed elementi elettronici che ci riportano alla scuola tedesca con echi molto chiari di Tangerine Dream e Klaus Schulze. I colori strumentali sono forniti da un bel campionario di sintetizzatori, suonati soprattutto dal batterista Olsson, ma anche da vari strumenti a fiato, gestiti da Einarsen, come il flauto alto soprano, il corno tenore e lo hulusi (aerofono di origine cinese). Riconosciamo poi sfumature Vandergraffiane e Crimsoniane, che a volte innervano situazioni musicali poppish, soprattutto per effetto della performance vocale di Rhys Marsh, sempre seducente ed affascinante. Al suo cospetto i suoni, anche quelli che all’inizio potevano apparire acidi e potenti, sembrano addolcirsi e a tratti persino assopirsi. Non mancano a questo denso impasto qualche alone psichedelico, alcune vaghe suggestioni folk e persino del post rock. Tutti questi elementi confluiscono in una forma musicale elegante e spesso introspettiva, malinconica e non di rado introversa, ma che sa essere anche sognante e romantica. I fitti grovigli elettronici vengono sovente inseriti ad arte, nei punti giusti, così come le aperture strumentali, spesso minimali, che vanno a finire fra i tanti dettagli di una matrice sonora molto variegata ma assolutamente non appesantita. E’ il caso di “In the Stillness of Time”, brano dai contorni pop di un’eleganza estrema, cupo e scarno ma abbellito da piccoli intarsi di squisita fattura, dominato dal cantato magnetico di Rhys Marsh e attraversato da una bella sequenza strumentale, fatta di cori e tastiere vintage schiumanti. Il brano scivola nel successivo “Starlit Motion”, con i suoi loop elettronici, il Moog e le linee di flauto che sembrano volteggiare come in assenza di gravità in un contesto musicale in cui dominano gli spazi vuoti e che trovo molto affine allo stile dei Tangerine Dream. A volte il disegno dei brani è abbastanza essenziale e persino d’impatto, come nel caso del brano di apertura, “The Ending of the Open Sky”, che presenta dei tratti asciutti, con chitarre acide e grintose, la batteria dai timbri profondi, e la voce teatrale ed essenziale che sembra staccarsi nettamente dallo sfondo musicale in un insieme molto accattivante. Altre volte i brani assumono dei lineamenti molto leggeri, come in “The Witness”, un pezzo indugiante in cui gli strumenti aleggiano come vaghi pensieri che sfuggono via in un’atmosfera dolcemente malinconica o come il successivo e conclusivo “The Skies Give Meaning”, umorale e dai contorni indefiniti. Ma il bello secondo me viene quando si scelgono soluzioni più complesse, ed è il caso di “Reptilian”, un pezzo affascinante dagli arrangiamenti moderni ma imbevuto di sonorità vintage a tinte Vandergraffiane. Ecco quindi il Mellotron (lo suonano sia Olsson che Marsh), stratificati impasti di synth (in questo album troviamo in particolare l’Optigan, l’Orchestron, il VCS3 come anche il Fender Rhodes) sostenuti da un drumming movimentato, echi folk e vari effetti sonori. A parti più confuse e torpide, come un tormentato dormiveglia disturbato da sostanze psicotrope, ne seguono altre più incisive, dark, spettrali e perturbanti. E in questo magma sinistro emergono poi con la loro rigogliosa bellezza affascinanti momenti Genesisiani. Il cantato diviene ora una nenia rassicurante ed il decorso della musica è imprevedibile, anche se la lentezza con cui si succedono le varie fasi rende tutto onirico, fluido e fluttuante. In “Lift Memory” troviamo poi parti strumentali incantevoli con echi di Landberk ma anche White Willow ed Änglagård, in minor misura, che emergono in più punti. In ogni caso va riconosciuto a questo trio il merito di aver creato qualcosa di davvero particolare, ispirato ed emozionale, mettendo a punto uno stile variegato ma che confluisce in una visione musicale unitaria davvero suggestiva. Spero quindi che questo sodalizio non termini con questo primo esperimento, a mio giudizio riuscito e consigliato, ma che vada ancora più avanti, esplorando magari nuove dimensioni sonore. La formula mi piace ed è molto promettente. Provatela.
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