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Secondo album dell’anno per i Samurai Of Prog dopo lo “Spaghetti Epic n. 4”, pubblicato qualche mese fa. C’è una novità sostanziale in questo “Anthem to the phoenix star”: per la prima volta, in un lavoro targato SoP, il compito di elaborare musica e testi è affidato ad un solo artista, nello specifico a Marco Grieco, di cui avevamo apprezzato, un paio di anni fa, il lavoro da solista “Nothing personal”. L’album è incentrato su sette composizioni, indipendenti l’una dall’altra ma che, e lo scopriremo nelle note finali del booklet, appartengono ad un diario di bordo redatto da una donna comune che, alla guida di un’astronave, è l'unica speranza per salvare il futuro della Terra. Non ci occuperemo del testo del “logbook” riferito ad ogni brano, ma ci limiteremo all’aspetto musicale. La title track apre l’album. Il vocalist, per l’occasione, è Clive Nolan (Arena e Pendragon), ma il grande protagonista è il sax di Marek Arnold che accompagna le digressioni strumentali e accresce il pathos, anche drammatico, del pezzo. Segue “Burning silence” e il microfono passa a Bart Schwertmann dei Kayak. Oltre al flauto di Sara Traficante che disegna i passaggi più delicati, il brano si fa apprezzare anche per la ritmica robusta e per un bel “solo” di Ruben Alvarez. “Killing Hopes” vede impegnato Yogi Lang (RPWL) alla voce e ritroviamo Steve Unruh (il terzo Samurai storico) al violino e al flauto. Un pezzo molto melodico vicino alle sonorità dei Flower Kings più ispirati. Di grande valore l’inserto acustico offerto dalla chitarra di Rafael Pacha. Delicatissima la traccia successiva, la suggestiva “Bones”, con alla voce Olivia Sparnenn-Josh dei Mostly Autumn. Tinte pastello dipingono un quadro squarciato a metà da due lunghi “solos” delle tastiere di Grieco, il secondo dei quali porta alla chiusura del brano. “Don’t be afraid” (per inciso il mio pezzo preferito) coniuga perfettamente le atmosfere romantiche anni ’70 (Genesis in primis) con quelle più rock degli ’80 anche grazie all’ottima prestazione dell’ennesimo vocalist presente, John Wilkinson. Il saggio di bravura al pianoforte di “Wings” ci conduce a “Behind the curtain” che chiude il viaggio. Si tratta del brano più lungo dell’album, oltre 13 minuti, diviso in nove movimenti. Qui, più che altrove, emergono le varie influenze dell’autore: sprazzi sinfonici, interludi acustici e guizzi da opera-rock. Una degna chiusura di un album molto bello che credo possa accontentare tanti prog-fans.
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