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Continua la prolificità discografica di Steve Hackett e continua mantenendo notevolmente elevata la qualità dei prodotti che giungono alle nostre orecchie. "To watch the storms" è il nuovo album elettrico del chitarrista, che esce quattro anni dopo "Darktown" e si presenta nei negozi in una doppia versione: oltre a quella caratteristica in jewel case, è stata infatti messa in commercio una edizione speciale con il cd contenuto all'interno di un ricco libretto con copertina rigida, nel quale sono presenti delle note scritte da Hackett per la descrizione di ogni brano e numerosi dipinti di Kim Poor. In questa versione (oggetto della recensione), inoltre, troviamo anche ben quattro brani in più.
Ma veniamo al contenuto musicale, ricordando che il chitarrista è accompagnato in quest'occasione da una vera e propria band - la stessa che lo ha seguito in tour nei mesi precedenti - composta da Roger King alle tastiere, Rob Townsend ai fiati, Terry Gregory al basso e Gary O'Toole alla batteria. Hackett sembra quasi voler ripercorrere un po' tutte le tappe della sua carriera, affrontando, in pratica, tutti gli stili in cui si è cimentato. Possiamo così ascoltare alcune ballate melodiche e malinconiche ("Strutton round", "Serpentine song", "This world"), ma anche i rimandi classici con una chitarra acustica che sembra uscita dal disco "A midsummer night's dream" ("Wind, sand and stars", la bellissima "The Moon under water", quasi una nuova "Horizons", e la conclusiva "If you only knew"), momenti vicinissimi ad un prog abbastanza tirato (la crimsoniana "Mechanical bride", già apprezzata sull'ultimo live e le continue variazioni di "Brand new"), un brano che unisce musica etnica ed elettronica ("The silk road"), il blues di "Fire island", gli accenni jazz di "Frozen statues", qualche stranezza riconducibile alle varie "Carry on up the vicarage" e "Sentimental institution" (tra le quali mi preme segnalare la umoristica "The devil is an englishman") e persino una sorta di mazurca-rock con "Come away". Moltissima carne al fuoco, quindi, per un disco formato da brani sì molto diversi tra loro, ma che, pur con qualche piccolissima caduta di tono nei momenti più strambi, presentano un comune denominatore nella straordinaria classe con cui Hackett dimostra, per l'ennesima volta, di essere non solo un grandissimo chitarrista, ma anche uno straordinario compositore.
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