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Quando un gruppo diventa un nome di rilievo consolidato, inevitabilmente ogni sua nuova uscita discografica verrà vivisezionata minuziosamente fino al punto che si ascolteranno, spesso con toni enfatici ed esagerazioni ai limiti dell'estremismo, i pareri più contrastanti. I Dream Theater sono senza dubbio una di queste band alle quali ci si riferisce senza mezzi termini: i fan li idolatrano fino al parossismo, i detrattori sono sempre pronti a sovradimensionare al massimo qualsiasi loro pecca. Forse solo tra venti anni riusciremo a capire sul serio se Portnoy e soci sono davvero un colossale bluff, se realmente rivestono un ruolo fondamentale nella musica moderna o se, come spesso accade, la verità si trovi piuttosto nel mezzo. Per ora concentriamoci sul presente, che vede un nuovo cd con cui i Dream Theater per l'ennesima volta spiazzano, visto che, come accaduto già in passato, cercano di fare qualcosa di stilisticamente diverso rispetto ai loro precedenti lavori. Il riff granitico ed oscuro, quasi sabbathiano, con cui inizia "As I am", apertura dell'album, è già indice del nuovo cambiamento di rotta. Il brano prosegue poi con un ritornello efficace e parti strumentali potenti e velocissime (si ascoltano i primi sintomi di un Petrucci affetto da "sindrome di Malmsteen") che possono addirittura rievocare il thrash metal dei migliori Metallica. L'influenza del gruppo di Lars Ulrich è in effetti avvertibile anche in seguito. In realtà, le composizioni che maggiormente possono far intendere la voglia di seguire un nuovo corso, sono "This dying soul", l'ossessiva "Honor thy father" e "In the name of God", nelle quali il thrash storico dei Metallica sembra a tratti sposarsi con la tecnologia dei Tool attraverso le indiscutibili qualità tecniche dei Dream Theater. In "Endless sacrifice" e, soprattutto, nella strumentale "Stream of consciousness" si ascoltano invece i Dream Theater più classici e progressivi, tra cambi di tempo (Portnoy martella come al solito), spunti melodici e intrecci mirabolanti. Episodio isolato e particolare, invece, è la riflessiva "Vacant", piccola perla di tre minuti guidata dalle tastiere di Rudess (e con tanto di violoncello vero) in cui predominano malinconia e pacatezza e degno seguito di "Wait for sleep" e "Space-dye vest". Pregi: album "viscerale", coraggioso a suo modo, suonato, come sempre, benissimo. Difetti: un Petrucci che spesso e volentieri eccede superando ogni limite di velocità, qualche brano allungato oltre il dovuto e la conferma in generale di voler a tutti i costi mostrare di essere i primi della classe in quanto a virtuosismo. Sarà facile esaltare quest'album, così come sarà altrettanto facile distruggerlo e inevitabilmente si tratta di un lavoro destinato a far discutere. Chi ama "Ytse jam", "Metropolis" e "A change of seasons" potrebbe trovare pochi motivi di interesse in "Train of thought", ma, a parere di chi scrive, questo cd, nonostante qualche punto debole, è un grande album di heavy metal: duro, violento, tecnico, potente, sfrenato e adrenalinico come raramente si è ascoltato negli ultimi tempi.
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