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DREAM THEATER Octavarium Atlantic 2005 USA

Racconta un mito medievale che, dopo la brutta avventura con la Papessa Giovanna, il papato avesse predisposto una sedia forata per controllare, attraverso un rito ben specifico, se i nuovi candidati alla massima carica ecclesiastica, avessero o meno le palle; da lì sarebbe derivato il modo di dire avere le palle. Ebbene questo disco le palle le ha e non solo sulla copertina. Alti e bassi, è vero, ma globalmente un disco di grande risultato. La difficoltà nel recensirlo è dovuta all’enorme varietà di temi, stili, atmosfere, sonorità e, sicuramente, compositiva. Innanzi tutto non serve il lanternino per cercare il progressive: ci sono tracce dalle quali salta fuori con una carica chiara e definita.
L’analisi dei brani evidenzierà sicuramente questa forte eterogeneità compositiva. Il primo brano “The Root Of All Evil” ha un buon avvio, inquietante e d’atmosfera. Il cantato non è dei miei preferiti. Amo molto il LaBrie pulito, un po’ meno questo pseudo-thrash. Le parti strumentali sono grandi, la batteria è molto effettata e ha quel sentore di registrazione live, dovuta all’uso di microfoni panoramici e un uso massiccio di post-produzione. “The Answer Lies Within” corre lenta, con un’ottima prestazione vocale un po’ in sordina gli strumenti, un brano senza infamia e senza lode. “These Walls” è potente nell’avvio, molto prog, ben dilatata nello sviluppo, metrica in sei crome, quasi una ballata. La linea vocale è bella e pulita. Fin qui la cosa migliore del disco. C’è un qualcosa in quello che si può definire ritornello che mi vuole riportare a qualcosa di grosso. Non voglio dirlo forte, ma quel cantato con la tastiera sotto mi fa pensare a “Get’em out by friday”. Ma non è una bestemmia?? Segue “I Walk Beside You”, brano notevole grazie al solito Portnoy, ma non solo. Mi vengono in mente certi U2, però come se avessero preso la laurea, dopo mesi e mesi di ripetizioni. Potente, arioso, spaziale e straordinariamente efficace è “Panic Attack”. Suonare da grandi, suonare come chiunque vorrebbe suonare. Particolare il cantato: a tratti secco e tirato a tratti più melodico e controllato. La miglior prova di LaBrie e direi anche di Petrucci. Sulla stessa onda viaggia “Never Enough”. Tra le righe troviamo il brano più moderno del disco. Un brano stupendo, con aperture prog. spettacolari. Vorrei trovare degli aggettivi più consoni, ma credetemi e ascoltatelo dieci volte, vi aprirà il cuore. Grossi dubbi, invece, genera la seguente “Sacrificed Sons”. La prima parte del brano è un po’ Led Zeppelin, ma non nella maniera di “Falling Into Infinity”, che a me è sempre parso un tributo a Page & C., direi qualcosa di più sottile: una sorta di “Dazed and Confused” nel nuovo millennio. Più aggressiva e Americana la seconda parte. Alcune parti sono notevoli, altre ridondanti e déjà-vu.
E, infine, ecco a voi il castello delle favole, la suite dello zoccolo duro, il pezzo dove Pink Floyd, Yes, Jethro Tull, Genesis, cozzano contro l’enorme specchio di Narciso, generando migliaia di frammenti che si conficcano nei cuori degli appassionati ascoltatori. Tutto e niente si potrebbe dire di questo grande brano potremmo descrivere il lungo intro floydiano, gli strappi tastieristici alla Wakeman e varie altre cose che non suonano nuove e, al contempo, non come copiate. È una profonda modifica genetica. Come leggere decine di volte “I promessi Sposi” e poi trovarsi a chiedersi chi fosse Carneade. Stacchi, controtempi, poliritmie, tempi dispari, Portnoy è alle stelle: brucia ogni aspettativa. In conclusione un grande disco, vorrei sbilanciarmi e dire il più bello dai tempi d’oro di “Images and Words”. Lo consiglierei persino al mio capo ufficio o al mendicante all’angolo.

 

Roberto Vanali

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