|
È proprio sul filo di lana che i nostri veterani di Belfort riescono a festeggiare degnamente i 50 anni di carriera, dato che il tour in questione dovette essere sospeso e rimandato proprio poche settimane dopo l’evento documentato da questo cofanetto. Il 31 gennaio e il 1 febbraio del 2020, quando il mondo occidentale viveva ancora con un certo distacco gli eventi che presto avrebbero cambiato la nostra vita quotidiana (inclusa la routine… “concertistica”), gli Ange si ritrovano al Trianon di Parigi nella loro formazione attuale, arricchita un nutrito stuolo di ospiti con cui avrebbero ripercorso tutte le fasi di una carriera lunga e variegata. Gli stravolgimenti di stile e di organico, dettati dalle mode del momento e dalle vicissitudini dei musicisti, trovano nella voce, nei testi e nell’inconfondibile veste di istrionico frontman di Christian Décamps il trait d’union di un repertorio altrimenti alquanto eterogeneo. Inutile negarlo, personalmente ho sbriciato la scaletta sperando in una predominanza del periodo più attinente al progressive rock, ossia dagli esordi di “Caricatures” a quel “Guet-apens” che chiuse in pompa magna il decennio del ’70; diciamo che tale fase è piuttosto ben rappresentata, costituendo il cuore del primo CD, per tacere degli encore. Resto un po’ freddo di fronte al secondo periodo (da “Vu d’un chien” alla ricostituzione della line-up storica, che disse addio ai fans con un tour di enorme successo nel 1995), anche se qui l’entusiasmo degli special guest che sono chiamati uno dopo l’altro a ricreare parzialmente o totalmente le lineup degli anni ’80 sono un valore aggiunto alla piacevolezza di brani tratti da lavori di stampo pop-rock come “Moteur!”, “La gare de Troyes” e “Fou!”. Il concerto, che rispetta grossomodo l’ordine cronologico dei brani, si chiude quindi con estratti dalla terza fase iniziata con “La voiture à eau” e l’avvicendamento di Francis Décamps alle tastiere con suo nipote Tristan, che li ha portati a inanellare una serie di buoni album fino ai giorni nostri, mostrando un eclettismo rinnovato e una modernità forse inaspettata (ma Christian si è sempre tenuto aggiornato sulle sonorità in voga, basti citare la sua stima per Steven Wilson e i suoi Porcupine Tree o le parole d’elogio verso la nuova scena prog francese, Lazuli in testa). La notizia che fa più scalpore è certamente la presenza sul palco di Francis Décamps per buona parte della prima metà del concerto; sappiamo che i rapporti tra i due fratelli non sempre sono stati dei migliori durante gli ultimi decenni, fa quindi immensamente piacere vedere la rinnovata complicità tra i due padri fondatori, con Francis abbigliato in modo pittoresco a sottolineare la sua sempre esuberante e a volte inquietante presenza scenica. Le sue tastiere sono oggi digitali, incluso il futuristico “Continuum Fingerboard” (il controller MIDI portato alla ribalta da Jordan Rudess dei Dream Theater, per capirci) ma il suono che riusciva a cavare dal suo organo Viscount modificato lo ritroviamo eccome. Si susseguono le storiche “Dignité”, “Le soir du diable” (con i due mitici burattini di “Caricatures”), “Fils de lumière”, “Sur la trace de fées”, “Ode à Emile”, l’interpretazione di Christian è come sempre magnetica, ed abbiamo il piacere di ritrovare al basso il flemmatico Daniel Haas, sempre con i suoi occhialini da professore di chitarra (quale è stato per anni dopo aver abbandonato la band) ed una tecnica non vistosa ma immutata. La scelta di affidare un cavallo di battaglia come “Les longues nuits d’Isaac” al giovane gruppo vocale “Chœur de Chauffe” mi lascia un po’ insoddisfatto, non perché i ragazzi non siano bravi, al contrario, ma perché avrei preferito un’esecuzione strumentale. Arriviamo già a “Guet-apens” e la delirante “Réveille-toi” (a metà tra un’appassionata canzone d’amore e un incubo necrofilo messo in musica…) è affidata dal carismatico capo alla voce del figliolo Tristan che le rende giustizia, mentre la chilometrica “Captain Cœur de Miel” (con l’attempato Chistian ormai credibilissimo nel ruolo del vecchio marinaio) se possibile è addirittura arricchita dai prodigiosi interventi alla chitarra del bravissimo Hassan Hajdi, probabilmente il chitarrista più tecnico e versatile che la band abbia mai avuto. A proposito di chitarristi, la prevista presenza all’evento di Jean-Michel Brézovar sfortunatamente saltò a causa dei problemi di salute di quest’ultimo, a cui il vecchio compagno (di musica, di baldoria e di liti) Christian dedica un sentito applauso. L’annuncio della title-track dell’album della svolta ottantiana, “Vu d’un chien”, innesca un avvicendamento sul palco, con l’ingresso del chitarrista Serge “Doudou” Cuenot, del bassista Laurent Sigrist e dei batteristi Fabrice Bony, Jean-Claude Potin ed Hervé Rouyer, tutti attivi nella band a varie riprese nei decenni ’80 e ’90. Qui si abbandona di colpo l’atmosfera un po’ seriosa e certamente idealistica creata dal vecchio repertorio e si inaugura una parentesi di pura evasione, duelli chitarristici e percussionistici e qualche sing-along con il pubblico, il tutto inframezzato dal duetto voce/fisarmonica della stravagante “Fou!” con protagonisti la brava Caroline Crozat e Francis Décamps; la vocalist si cimenta anche assieme a Tristan in una performance recitata su “Crever d’amour”, momenti intimistici che spezzano il ritmo della lunga esibizione. Quando la formazione originale degli Ange si riunì alla fine degli anni ’80, partorì due album discreti, con un parziale ritorno al rock sinfonico: mentre il primo di questi (“Sève qui peut”) è saltato a piè pari, da “Les larmes du Dalaï Lama” viene estratta la piacevole “Le ballon de Billy” con il suo accattivante refrain e la coda strumentale affidata alle sei corde di Hassan in veste “guitar hero”. L’ultima parte del concerto vede il ritorno della formazione corrente, che si completa con Benoit Cazzulini (batteria) e Thierry Sidhoum (basso) ed una serie di estratti dai lavori pubblicati dal 1999 fino al più recente “Heureux!” del 2018: si distinguono l’articolata e grintosa “Quasimodo”, in cui Tristan concede un’altra delle sue prove vocali, l’intimistica e jazzata “La voiture à eau”, il rock robusto di “Le rêve est à rêver”, uno dei brani più heavy mai composti dai nostri ex trovatori, il ritorno della Crozat per “Les collines roses”. C’è tempo per un medley che include un ulteriore ripescaggio d’altri tempi come “La colère des dieux”, con le batterie di Cazzulini e Bony che suonano all’unisono (un po’ sulla scia di quanto proposto dagli ultimi King Crimson…) e qualche effetto speciale a ravvivare l‘aspetto visuale, ed ecco che gli encore ci riportano agli anni in cui una cover di Jacques Brel (“Ce gens-là”, naturalmente) stravolta e rivisitata in una sprezzante chiave rock portò la meritata notorietà alla band. Infine, quale migliore scelta se non “Hymne à la vie” per trascinare sul palco tutti i tredici musicisti coinvolti in questa celebrazione, in un tripudio di suoni, sorrisi complici e un senso di soddisfazione per chi può vantarsi senza esagerazioni di aver scritto la storia del rock francese. Il disco ed il video sono dedicati dalla band ai compagni scomparsi, ovvero lo storico produttore Jean-Claude Pognant, a cui Décamps e soci devono molto, ai chitarristi Claude Demet e Robert Defer e al bassista Mick Piellard.
|