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DREAM THEATER Black clouds and silver linings Roadrunner 2009 USA

7 agosto 2009: guardando i dati della FIMI per i dischi più venduti in Italia ci si accorge che i Dream Theater sono da 6 settimane in classifica e occupano una posizione superiore ad Eros Ramazzotti, Tiziano Ferro, Arisa e Giovanni Allevi.
Sono l’unico gruppo che non proviene dagli anni 70 attinente a sonorità progressive, a poter vantare certi numeri, ad essere amato dagli under 20, ad esser odiato a prescindere da chi pensa che per parlare di progressive bisogna per forza parlar male dei Dream Theater post “Images & words”, dimenticando che forse è proprio la categoria progressive a non essere propriamente azzeccata per il gruppo americano.
Petrucci & company sono un’azienda in attivo, vendono dischi, fanno i pienoni ai concerti, hanno un merchandising invidiabile a gente come Iron Maiden e Metallica e con i due gruppi hanno una cosa in comune, oltre ad aver raggiunto anche loro una carriera ventennale coronata di successi: di solito sono bistrattati dagli appassionati più smaliziati del genere d’appartenenza.
Prima di poter valutare questo disco consiglio vivamente di ascoltarlo più volte, per evitare di accodarsi ai puristi di turno (o ai ragazzini cresciuti troppo in fretta) pronti a pagare anche 32 euro (sperando che qualcuno ancora lo faccia) per poter parlare male di qualcosa che non gli appartiene.
Dopo un disco duro e propriamente metal quale era "Systematic chaos" (anche se con visioni su quello che il mondo metal ha sfornato recentemente) ci troviamo davanti ad un lavoro molto variegato, che rischia di non accontentare nessuno per il modo nel quale vengono affrontati gli argomenti sonori e per il modo troppo freddo (più freddo del solito) di approcciare alla musica da parte del gruppo americano.
La sensazione di trovarsi davanti a cinque impiegati che aspettano le 16 e 30 per timbrare il cartellino e portare a casa lo stipendio è sparsa un po’ dovunque in questo cd.
Citazioni colte e meno colte, molte autocitazioni (e fa un po’ ridere vederle criticate, esaltando poi chi clonando i riff dei DT ha rimpinguato i propri conti in banca), la solita tecnica superlativa che è il marchio di fabbrica di questi alfieri del metallo fatto bene, fanno capolino su tutti i brani. I Dream Theater lo sanno fare il loro lavoro, lo fanno ad occhi chiusi, come chi lavora in una catena di montaggio.
E da un gruppo da vendite industriali, che sforna dischi di successo come una linea di produzione della BMW, non possiamo aspettarci la freschezza, l’unicità, le rifiniture di un lavoro artigianale.
Un lavoro dei Dream Theater non può essere valutato alla stregua di una produzione media di rock progressive canonico (ma anche prog metal) proprio perché stiamo parlando di prodotti assolutamente diversi, dalle specifiche tecniche differenti, anche se tutte e due vanno a finire in un lettore cd.
Come tutti i prodotti che vengono da una linea di produzione industriale e non pensati per una nicchia di mercato, troviamo cose “normali” o atte ad aumentare l’appeal commerciale di un gruppo. Aspetto questo che si nota in brani tipo “Wither” o “ A rite of passage”(brano veramente sciapo che lascia veramente poco anche all’ascoltatore più ben disposto).
Con “The Shattered Fortress” troviamo anche la fine del concept sulla sua dipendenza dall’alcool che Portnoy porta avanti dai tempi di “The glass prison” e, come tutti i concept “autocelebrativi”, riff e strofe musicali già ascoltati nei precedenti album dei Dream Theater si sprecano.
I brani più interessanti per gli appassionati prog si trovano alla fine dell’album, “The Best of Times” e “The Count of Tuscany”. I 13 minuti del primo pezzo, danno modo a James Labrie di mettere in risalto le qualità melodiche del suo modo di cantare (che in realtà risulta l’aspetto più deludente e stucchevole di tutto il lavoro, vista l’impronta hard che il gruppo sembra con il passare degli anni aver preso) e di poter fare a Petrucci uno di quegli assolo che possono fare solo i grandi delle sei corde e che saranno trascritti ed imitati da migliaia di fan.
Il secondo rimarrà forse tra i miei brani preferiti di tutta la produzione dei Dream Theater. In 19 minuti è racchiusa tutta la storia di questo gruppo, tutte le loro contraddizioni sonore, tutto il loro esser pacchiani e virtuosi allo stesso tempo, è il classico brano da mettere in una compilation dove con un brano è come se ti portassi dietro tutta la discografia. Per i puristi segnalo la seconda parte che con i suoi echi vagamente floydiani può ricordare molto vagamente la suite omonima di Octvarium(senza gli eccessi iper nostalgici di quella).
Chiunque lo ascolterà veramente e con imparzialità, facendo la media tra episodi riusciti e meno riusciti, non avrà problemi a considerare questo cd un lavoro più che sufficiente.
Vorrei anche spendere due righe per il cd di cover che accompagna questo lavoro (c’è anche un terzo cd con versioni strumentali dei brani originali, ma ve lo risparmio volentieri). Ritornando alla metafora dei cinque impiegati il disco di cover possiamo paragonarla ad una pausa pranzo in ufficio.
A parte Labrie che dimostra di perdere la partita contro R.J. Dio e Bruce Dickinson nelle cover di “Stargazer” e “To time a land “(che per il resto è quasi migliore dell’originale maideniano), il resto del gruppo in un’ora dimostra, qual è la più credibile cover band del pianeta, cimentandosi più che decentemente anche con un brano intoccabile quale “Larks tongue in aspic pt. 2“ senza risultare ridicolo. Sarà che anche nelle catene di montaggio ogni tanto si può scherzare tra colleghi, perché anche se si tratta di brani sentiti e risentiti (troviamo anche un medley dei Queen e un brano di Steve Morse), l’atmosfera poco seriosa (ma sempre tecnica e professionale) ce li fa ascoltare volentieri.
Concludendo, tutta l’operazione risulta essere un prodotto fatto con lo stampino. Non possiamo paragonarlo alla brioche che ci fa il nostro pasticciere di fiducia ma sicuramente ad un buon saccottino all’albicocca del Mulino Bianco. E tutti sappiamo che anche i saccottini riscaldati al punto giusto hanno il loro buon perché quando la mattina facciamo colazione. Basta mangiarli nel modo corretto e ricordarsi che stiamo sempre parlando di un saccottino.



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Antonio Piacentini

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