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E’ sempre piuttosto arduo mettersi a scrivere qualcosa a corredo di un disco direttamente connesso con la Flower Kings family. L’argomento è da trattare sempre con molta cautela, tentando di immergersi nella musica nella maniera più obiettiva possibile e lasciare andare le sensazioni e le emozioni, qualora abbiano voglia di uscire.
Per questo progetto collaterale, Roine Stolt sembra aver messo un po’ da parte le velleità da super leader e ha voluto creare una struttura nella quale tutti possano avere i giusti spazi di manovra, ove esprimere al meglio personalità e capacità. Viene interamente confermata la formazione del precedente “Dramarama” che, oltre allo stesso Stolt (chitarre e voce), vede Nad Sylvan degli Unifaun alla voce solista, Lalle Larsson alle tastiere, Jonas Reingold al basso e Walle Wahlgren alla batteria. Il concept ruota attorno ad una musicalità di stampo vintage prog con numerose intrusioni hard nei quali la chitarra e la batteria picchiano piuttosto decise. Decisamente ricco e fondamentale l’apporto delle tastiere di Larsson, tra monumentali tappeti e tecnicissimi assolo di varia natura, comprendendo anche partiture con affinità fusion - jazzistiche. Nello scorrere del lavoro è dato grande spazio ai cantati, costruiti con estrema cura melodica per la voce, dal timbro tra Gabriel e Cat Stevens, di Sylvan, cantante che salta bene tra voci piene (dove si trova ben a suo agio) e falsetti (puliti, ma a tratti lievemente forzati). Certamente ben ragionata la sequenza, con la title track messa in apertura. “The black forest” è un brano estremamente dinamico, moltissimi i cambi giostrati su atmosfere piene e ritmicamente complesse. Qui le chitarre spaziano tra hard prog settantiano e spunti che rimandano direttamente ai Genesis di Wind and Wuthering, in alcuni passaggi è quasi da citazione. Sale prepotentemente il groove ritmico, con gli intarsi fusion di “A quite little town” dove è ancora la dinamica a governare una traccia molto piacevole. Ma se da una parte il disco si spinge verso schemi prettamente hard, come nella composta “Black sunday”, che punta decisamente verso melodie accattivanti e po’ ruffiane, all’opposto troviamo tracce come “Elegy” dalle struggenti trame melodiche. Questa è, a tutti gli effetti, l’alternanza del lavoro, fatta di strutturazioni chiaro-scure sempre ben composte e ordinate, come nella bella “Freak of life” chiaro esempio di quanto detto o in “Citadel”, probabilmente il brano più tipicamente Flower Kings del disco. Fatta eccezione per qualche passo dall’evoluzione un po’ scontata, mi sento di promuovere ampiamente questo lavoro che pur non presentando cose di grande fascino si lascia ascoltare con piacere dall’inizio alla fine. A gusto mio avrei puntato meno sulla parte hard delle chitarre, ma è un aspetto secondario, vista – comunque – la generale positività del lavoro.
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