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Confesso di essermi avvicinato a questo disco con sospetto e con non poche preoccupazioni. Le ultime prove tutt'altro che convincenti della creatura di Roine Stolt, l'ascolto del pessimo "Snow" dei cugini Spock's Beard, il ritorno ad un lunghissimo album doppio e l'aver letto sulla copertina che quest'ultimo inizia con una suite di 30 minuti e termina un'altra di 24 mi facevano davvero temere di dover mandare giù un polpettone indigeribile, fatto di schemi triti e ritriti e ormai rosicchiati fino all'osso. Poi parte l'ascolto e, sorpresa!, la mezz'ora di "The truth will set you free" scorre via piacevolmente, con melodie vocali gradevoli e slanci strumentali finalmente ispirati. Il prosieguo del lavoro rivela qualche piccola caduta di tono (la sempliciotta "Monkey business", l'eccessivamente mielosa "Solitary shell", alcuni brani brevi non molto convincenti), ma anche alcune intuizioni davvero degne di nota, come "Christianopel", strumentale in cui i Flower Kings si allontanano dalle classiche sonorità sinfoniche e solari per addentrarsi in territori più ruvidi, fatti di dissonanze percussive, spunti vagamente psichedelici e tocchi nervosi di chitarra che ricordano certi sperimentalismi crimsoniani, "Soul vortex" e "The devil's danceschool" dai modi scattanti e leggeri un po' jazzati, la teatrale "Rollin' the dice", "Man overboard" dal classicissimo romanticismo sinfonico, l'altra suite "Devil's playground"... Rispetto al passato i Flower Kings sembrano stavolta maggiormente orientati ad esibirsi nello Yes-sound, specie nelle parti cantate e nelle due suite. I punti di forza restano comunque i momenti strumentali, in cui il gruppo mostra quella vitalità e quella freschezza che sembrava aver del tutto smarrito nelle ultime prove. Che Stolt, distolta l'attenzione da altri progetti (Transatlantic e Kaipa), abbia trovato nuovo vigore?
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