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TAYLOR'S UNIVERSE Worn out Marvel of Beauty Records 2013 DAN

Atmosfere sospese con note di sax in lontananza, ma in crescendo, fungono da introduzione a “Floating rats”, il brano di otto minuti che va ad aprire il nuovo album del Taylor’s Universe. Su questi scorci quasi floydiani, le tastiere e i ritmi marziali rendono il tutto un po’ minaccioso ed ecco che, toccati i tre minuti, si spinge sull’acceleratore, con una chitarra quasi à la Holdsworth a velocizzare le cose e a dare un tocco fusion, alternandosi in con i fiati che rifniscono elegantemente. E’ un vortice sonoro che cattura e trascina; i vari strumenti si danno il cambio alla guida in continuazione e viene fuori quello che può essere considerato un manifesto di quello che è oggi questo intrigante progetto del musicista danese Robin Taylor: una musica totale e senza limiti, che abbraccia prog sinfonico, jazz-rock, space-rock ed elementi orchestrali-zappiani.
L’incedere maestoso della composizione si mantiene distante da qualsiasi luogo comune e “Worn out”, così, parte alla grande. Rispetto al validissimo predecessore, “Kind of red”, nel nuovo parto Taylor si affida a ben tre fiatisti, con il ritorno del fido Karstel Vogel (sax) al fianco dei confermati Jakob Mygind (sax) e Hugh Steinmetz (tromba e flicorno). Con Taylor a suonare un po’ di tutto, completano la line-up Klaus Thrane alla batteria e Jon Hemmersam impegnato con i guitar solos (oltre alla sempre presente Louise Nipper per un breve intervento vocale). Dopo un avvio fulminante le altre cinque tracce che sono presenti in “Worn out” mantengono standard altissimi. C’è la mirabolante “Munich”, con quasi dieci minuti e mezzo di virtuosismi e intarsi elettroacustici, per un jazz-rock che sembra attualizzare e “ripulire” il sound dei Soft Machine, presentando anche qualche riferimento ai Colosseum. Seguono poi le melodie indefinibili di “Imaginary Church” e della misteriosa “Cruelty in words”, con qualche sapore Goblin. Il tradizionale “Jens in Afghanistan”, aperto dai ritmi da marcetta, si trasforma poi in un jazz-rock davisiano, attingendo a piene mani dai solchi elettrici di “Bitches brew” e “Dark Magus”. La conclusiva “Sergeant Pepperoni” omaggia i Beatles, ironicamente, solo col nome, per il resto va avanti tra passaggi onirici à la Pink Floyd e slanci fusion, mostrando, così, anche le capacità tecniche invidiabili dei musicisti coinvolti.
Taylor ormai non sbaglia un colpo ed è sempre più una garanzia. Ribadiamo con ferma convinzione che si dovrebbe parlare un po’ di più di questo grande musicista quando si va ad analizzare l’universo progressive del nuovo secolo.


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Peppe Di Spirito

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