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A conferma di una grande prolificità e di un’ispirazione che si mantiene sempre elevata, giunge il secondo album del 2013 per il Taylor’s Universe. “Evidence” porta ancora più avanti certi percorsi intrapresi con il precedente “Worn out”, nel quale i Pink Floyd cominciavano a fare capolino e a subire il “trattamento Taylor” di modernizzazione e di indirizzo verso sentieri più tecnologici e particolari. A dimostrazione di tutto ciò il disco inizia subito alla grande con “Buildings”, una composizione di quasi un quarto d’ora, inizialmente dalle atmosfere molto suggestive, sicuramente derivanti dall’influenza floydiana, con un bel sax che svolazza libero e che dopo un po’ comincia ad alternarsi con magnifiche escursioni chitarristiche, epiche e cariche di pathos. In effetti, l’inserimento di Claus Bøhling in formazione (curriculum impressionante, ha suonato, tra gli altri, nei Secret Oyster, nei Coronarias Dans e negli Hurdy Gurdy), impegnato ai guitar-solos, contribuisce non poco ad orientare il nuovo parto, rispetto a quelli del passato, verso sonorità più languide e romantiche. Non che si perda lo spirito di ricerca che da sempre contraddistingue i lavori di Taylor, né si rinuncia alla spinta jazzistica su cui spesso si basano gli interscambi strumentali. Anche “Red afternoon” comincia con quest’aura sognante (merito soprattutto dei vocalizzi eterei di Louise Nipper) e prosegue poi in una direzione space-rock coinvolgente, a volte con vaghi rimandi ai Tangerine Dream più accessibili degli anni ’70, a volte con incroci vibranti di chitarra e tastiere. L’incedere marziale dei primi trenta secondi di “Marie Marolle” è solo l’inizio di un brano un po’ più ossessivo e caratterizzato da crescendo continui e cambi di tempo che sembrano suddividerlo in più sezioni: dapprima le note ripetute alle tastiere con timbri sintetici eppure caldi (potrebbero andar bene anche come colonna sonora di un horror), poi un sax che riporta nuovamente in mente i Pink Floyd, poi una lunghissima esibizione di chitarra elettrica carica di distorsioni, poi di nuovo il sax che va via spedito, infine sequenze simili, ma più brevi e che caricano ulteriormente la tensione. Conclude il cd “Forever and day”, forse più vicina a certe cose del passato di Taylor, attraverso un fusion moderna, elaborata al punto giusto, nella quale non si disdegnano inserimenti vagamente sinfonici. Sotto certi aspetti “Evidence” è uno degli album più accessibili nella vasta discografia di Robin Taylor, eppure non c’è nulla di banale o di già sentito nei quarantaquattro minuti che si vanno ad ascoltare, né tentazioni di rendere le cose più leggere e/o accattivanti. Si tratta “semplicemente” di una grande prova, lontana da estremismi e da sperimentazioni accentuate. In questa occasione il musicista danese si è superato e ha creato un vero gioiello, che può anche sorprendere chi lo segue già da un po’ e che può essere considerato senza ombra di dubbio uno dei picchi più elevati della sua carriera. Se ancora non vi siete avvicinati al suo mondo sonoro questa è l’occasione più ghiotta che potesse capitare.
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