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Ci sono degli eventi che hanno la capacità di rassicurarci quando tutto ciò che ci circonda cambia rapidamente: l’uscita di un nuovo album dei Pendragon è una di queste, quasi un rintocco di campana che scandisce il passaggio del tempo che tutto trasforma ma solo per tornare ciclicamente al principio. “The sun is the same, in the relative way, but you’re older”, scriveva Roger Waters anni orsono, ed i Pendragon invecchiati conservano molte delle caratteristiche che ci li hanno fatti amare negli anni ’80 e ’90: un gusto innato per la melodia cristallina, una voce che – piacqua o meno – è riconoscibile anche con i tappi nelle orecchie, una chitarra che è figlia legittima della Stratocaster di David Gilmour ed un livello di composizione costantemente sopra la media dei loro innumerevoli emuli. Conscio però del pericolo nel calcare pedissequamente le proprie stesse orme, quelle impresse nella sabbia del new-prog da “The World” in poi, Nick Barrett già con il precedente “Believe” aveva condotto la sua carovana su sentieri differenti, evitando di girare in tondo e perdere un pizzico di creatività a ciascuna tornata. Ciò che ne usci fuori fu un disco più tenebroso, che sacrificava la proverbiale solarità già messa alla prova da un lavoro come “Not of this world” (che fu anche il modo di venire a termini con le tribolazioni della sua vita privata dell’epoca). Sulla scia del predecessore, ecco il nuovo “Pure” a confermare una tendenza che vede la musica discostarsi sempre più dagli stereotipi degli ormai remoti eighties, privilegiando una poetica decisamente floydiana e irrobustita, sempre più “guitar-oriented” pur non arrivando agli eccessi pseudo-metal degli ultimi Porcupine Tree. Non saprei dire se le tastiere di Nolan abbiano perso importanza nell’economia sonora: certamente sono meno propense a ricamare gorgoglianti assoli, preferendo conferire ai brani un tocco un po’ inquietante e delle vibrazioni sinistre; larghissimo invece l’uso di samples, l’ultima passione di Nick Barrett come si evince anche dal documentario allegato al disco, che arricchiscono un tessuto sonoro già stratificato (frequente la sovraincisione di quattro o cinque chitarre). L’album è il primo che vede seduto allo sgabello della batteria il nuovo arrivo Scott Higham (nel ruolo che fu per 20 anni di Fudge Smith e più recentemente di Joe Crabtree), che con la sua tecnica impeccabile e irruenta contribuisce alla maggiore “presenza” dell’aspetto ritmico, un po’ come accadde agli IQ con l’inserimento di Andy Edwards.
Per quanto riguarda le liriche, il cambiamento segue la stessa propensione per l’oscuro: come nel precedente album si sottintendeva un’adesione alle cosiddette “teorie della cospirazione”, stavolta è il ruolo dell’adolescente intrappolato nell’incertezza della società odierna a legare tematicamente i brani, una coincidenza che chiama in causa di nuovo la band di Steven Wilson e i suoi ultimi due lavori. L’artwork di copertina, che per la prima volta dal 1991 non è opera di Simon Williams, bensì dello studio Killustrations, rispecchia appunto tale concept mediante immagini di valore simbolico.
L’album si apre con i 13 minuti di “Indigo”, in cui sono esacerbate le tendenze appena descritte: la voce di Nick è grave e aggressiva, le chitarre minacciose ed il timbro dei synth spesso spiazzante e lontano dai soliti cliché; la tensione di scioglie nella melodia solo all’approssimarsi del finale. Sulla stessa falsariga è “Eraserhead”, se vogliamo ancora più inquietante, come il film di David Lynch da cui eredita il titolo: troviamo di nuovo chitarre stratificate e qualche similitudine con gli Arena degli ultimi album, un brano assai “tirato” e dall’atmosfera opprimente.
Occorre giungere all’ottima mini-suite “Comatose”, divisa in tre movimenti, per ritrovare il tipico “Pendragon sound”: qui gli inserti heavy, pur presenti, sono sapientemente giustapposti a sezioni melodiche affidate a voce e piano ma anche ad una chitarra dal suono finalmente limpido e pulito: ad esempio nella prima parte “View from the shore” trovano spazio fianco a fianco i più muscolari power chords, barocchismi di archi campionati e fragili flauti del Mellotron.
Il dono della sintesi sembra essere la caratteristica migliore di “The freak show”, che in poco più di quattro minuti riesce a convogliare atmosfere differenti, voli pindarici chitarristici ed un’interpretazione vocale matura in un brano che in fondo aderisce alla classica “forma canzone”. Chiude l’album il capitolo più semplice e tradizionale: la ballad “It’s only me”, che rientra nella stessa categoria di quella “The edge of the world” posta a chiusura di “Believe”, in cui Barrett può sfoderare la sua fantasia strumentale in un contesto più rarefatto e meno… asfissiante.
Il DVD allegato alla versione deluxe dell’album contiene un esteso documentario (“A handycam progumentary”) filmato dentro e fuori dallo studio (in compagnia del co-produttore Karl Groom) con una telecamera a mano: è Nick a presentare i brani singolarmente, soffermandosi sulle catene di effetti, sui samples e le timbriche delle tastiere ma anche sulle liriche e le fonti di ispirazione di un album spesso autobiografico.
In conclusione, i Pendragon del trentennale (ed io che mi ostino a chiamarlo new-prog!) sono una band consapevole del proprio passato, che cerca soluzioni innovative ma senza rivoluzionare una formula già vincente, che strizza un occhio alla nostalgia e l’altro al presente (apprendiamo dalla viva voce di Nick Barrett il suo interesse per il nu-metal…) cercando di non scontentare il pubblico che li ha seguiti per anni, bensì intrigandolo con contaminazioni inaspettate ma sempre ben digeribili. Non gridiamo al miracolo, ma si tratta probabilmente dell’album più ispirato dai tempi di “The Masquerade Overture”.
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