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Sgomberiamo subito il campo da ogni equivoco: quest’opera rock è un lavoro su cui è stata riposta in modo pignolo un’enorme cura e attenzione per ogni più piccolo dettaglio. E’ significativo che sia stata concepita, incisa e pubblicata proprio durante un periodo di riflessione per gli Arena, fino ad oggi il progetto in cui Clive Nolan – autore unico di testi e musiche - ha riversato le maggiori ambizioni artistiche e in un periodo di pagine bianche nell’agenda dei Pendragon, l’altro suo impegno di lungo termine. Inoltre, la pubblicazione a mo’ di anteprima di un certo numero di EP (“Closer” e “Walk on water”) atti a “sondare le acque” erano anch’esse sintomo della prudenza e forse dell’insolito timore di “bruciare” un progetto nato per essere qualcosa in più dell’ennesima band assemblata per un disco o due. Ecco dunque, dopo due anni di gestazione, arrivare nei negozi il tanto atteso kolossal, monumentale già a partire dalla durata (due CD belli zeppi di musica, ed è stata pubblicata anche un’edizione in triplo vinile!) per non parlare dell’affollata copertina e del tomo che funge da booklet, quarantaquattro pagine infarcite di illustrazioni e brani originali del romanzo d’avventura omonimo che ha ispirato il concept, un fortunato best-seller dello scrittore inglese H. Rider Haggard, esponente di picco della narrativa d’avventura d’epoca vittoriana.
Per intraprendere l’impresa di musicare la storia di Ayesha - affascinante quanto dispotica sovrana venerata come una dea - e dell’esploratore Leo Vincey, Nolan si circonda di collaboratori noti e meno noti, affidando l’impegnativa parte della protagonista femminile alla giovane vocalist di nazionalità polacca Agnieszka Swita - il fulcro attorno al quale Clive ha creato il progetto stesso – ed i ruoli di coprotagonisti alle voci di Alan Reed (Pallas), di Christina Booth (Magenta) e alla propria, che non ascoltavamo su disco dai tempi degli Shadowland. Completano i ranghi i “soliti sospetti” ossia John Jowitt (IQ) al basso, Mark Westwood (Neo) alla chitarra e il nuovo percussionista dei Pendragon, Scott Higham.
Mai come oggi le liriche nolaniane, generalmente un po’ astratte e ambivalenti, sono state così funzionali alla narrazione di una storia e posso affermare che da questo punto di vista il salto di qualità è notevole: il “libretto” risulta di qualità assolutamente adeguata alla trasposizione musicale.
Parliamo della musica, appunto: la natura stessa della formazione dovrebbe suggerire analogie con il sound di una precedente formazione: quegli Strangers on a Train nati lo scorso decennio per valorizzare la voce di Tracy Hitchings, soprattutto con il secondo capitolo che prevedeva uno svolgimento a suite con caratteristiche fortemente sinfoniche (sia pur sul versante… “edulcorato” del genere). Ciò che fa la differenza in questo “She” è una maggior propensione a seguire la struttura tipica di un’opera (ed in effetti è stata rappresentata con tanto di costumi di scena a Katowice nell’ottobre del 2007: per i dettagli rimando alla futura recensione del DVD…) e la presenza di una dose molto maggiore di dinamica ed accelerazioni strumentali, come richiede la portata del concept. Quest’ultima attitudine è stata favorita affiancando alla tipica strumentazione rock un certo numero di ospiti che arricchiscono gli arrangiamenti con oboe, corno, violoncello (suonato dall’ex Electric Light Orchestra Hugh McDowell) e soprattutto un coro di 11 voci, quasi un obbligo in contesti simili, anche se qui mai usato come narrazione di raccordo ma piuttosto a rafforzare l’enfasi dei momenti più drammatici. Come conseguenza di quest’ampliamento di timbriche notiamo anche una ridotta incisività della chitarra elettrica, che si erge solista piuttosto raramente. Se ci concentriamo sul suo fine ultimo, ossia trasporre in musica una storia dalle caratteristiche solenni, epiche e con sfumature soprannaturali, possiamo senz’altro affermare che il lavoro di Nolan è da applaudire senza riserve; se proprio vogliamo trovare dei difetti (e qui cerco di immedesimarmi nella fazione di chi ha le scatole piene del new-prog e del sinfonico un po’ melenso…) possiamo citare una certa latitanza di soluzioni più ardite che forse la tavolozza di suoni avrebbe potuto supportare: a tratti si nota una certa ritrosia nell’uscire da uno steccato autocostruito attorno ad una rassicurante strada segnata negli ultimi 15 anni dalle band nolaniane (e qui aggiungo anche i progetti Nolan/Wakeman, anch’essi interpretati da un cast di vocalist). Un plauso lo merita certamente la voce della bravissima Agnieszka che pure - forse a causa del ruolo - è spesso appesantita da un alone di enfasi un po’ artificiale e da il meglio di se quando finalmente non le si chiede di emanare aggressività e può adagiarsi su interpretazioni più dolci ed emozionali.
Mi rendo conto di essere già arrivato in fondo alla pagina senza aver citato brani e astenendomi dai soliti paragoni (a parte quelli obbligati con le band “sorelle”); bene, non è mia intenzione passare a setaccio brano per brano ma d’altro canto mi parrebbe di lasciare il lavoro a metà senza indicare qualche momento saliente… fermo restando che la natura dell’album prevede l’ascolto integrale (nonostante risulti un po’ difficoltoso compierlo tutto d’un fiato) posso senz’altro citare “The veil” o “History”, brani affidati all’espressiva ugola di Alan Reed e caratterizzati da un potente refrain: siamo a metà strada tra i Pallas ed i migliori Arena (c’è da stupirsi?); per apprezzare al meglio le capacità di Agnieszka dobbiamo invece scegliere la cristallina e soffusa “Vigil”, dall’arrangiamento classicheggiante; un discorso a parte lo merita “Rescue”, brano in cui l’espressiva voce di Christina si cimenta su una base che vedrei molto bene come colonna sonora di un ipotetico sequel de “La storia infinita”, forse a causa della ritmica lineare, dei vocalizzi o dei synth in stile anni ’80; sempre affidata alla Booth quella “The bonding” in bilico tra i Magenta e degli immaginari Cranberries in versione orchestrale; infine da segnalare l’ottimo intreccio vocale tra i quattro protagonisti in “Ambush”, parentesi che alterna momenti di pathos ad un trascinante crescendo che la rende uno degli zenith dell’album e conferma l’abilità di Nolan nella scrittura di melodie accattivanti. Tutti i brani citati appartengono al primo atto dell’opera (ossia il primo CD), nella seconda parte la musica si fa spesso più rarefatta, meno immediata e a volte più spiccatamente teatrale (come l’eccentrica “Fire dance”, una danza macabra) e se non fosse per il fatto che “She” è stato concepito per la rappresentazione live parrebbe quasi di notare una certa forzatura nella durata complessiva, stanti anche le numerose riprese dei temi portanti. Premesso questo, brani come “Cursed”, la struggente “Closer”, “The eleventh hour” (debitrice delle ballate dei Queen) e la drammatica chiusura con i dieci minuti della multiforme “The fire of life”, in ultima analisi non fanno affatto rimpiangere la scelta delle due ore abbondanti per il dipanarsi dell’opera: in fondo l’autolimitazione non è mai stata prerogativa dei tastieristi prog!
Giunto in conclusione, mi sento in dovere di aggiungere solo un’osservazione: il mio giudizio ampiamente positivo è da mettere in relazione con un personale gradimento per un certo tipo di progressive inglese che vede appunto Nolan, Reed & co. tra i principali paladini; non che il mio gusto si fermi qui - tutt’altro – ma se il vostro è invece rivolto esclusivamente a produzioni sperimentali e rifuggete le inflessioni romantiche e i sovratoni neoclassici/operistici…. beh, allora qui troverete ciò che detestate e per di più elevato a potenza: vi ho messo in guardia!
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