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Trovo sia sempre molto indicativo seguire il percorso artistico di band dalla carriera pluridecennale, assistere agli alti e i bassi, i tentativi di rinnovamento, gli eventuali deragliamenti e i ravvedimenti, le sterzate in direzioni commerciali, l’abbandono di velleità in tal senso e la decisione di suonare per se stessi o assecondando il gusto prevalente dei fans. Mettendo da parte traiettorie schizofreniche come quella degli Yes, ciò è particolarmente vero per una band come i Pendragon, nata alla fine degli anni ’70 ma giunta all’esordio discografico proprio nel bel mezzo del revival che oggi chiamiamo “new wave of British progressive rock” o semplicemente new-prog. È quindi fisiologico che ad una partenza senza compromessi seguì una deviazione (non troppo fortunata), forse sulla scia del successo dei Marillion (cosa avvenuta anche a band coeve come IQ, Pallas, Twelfth Night, Castanarc, persino gli integerrimi The Enid, quasi tutte tornate poi sui propri passi), consistente nella semplificazione della proposta (parlo soprattutto dell’album “Kowtow” e del singolo “Red shoes”). La nuova fase dei Pendragon può essere invece fatta coincidere con la creazione della propria etichetta (Toff Records), mossa che permise loro di svincolarsi da logiche di mercato ed abbandonare l’idea ormai poco verosimile di un successo di massa; ciò ha consentito loro di mantenere una base di fan affezionata e fedele e di pubblicare i lavori artisticamente più apprezzati: con la trilogia “The world”, “The window of life” e soprattutto “The masquerade overture”, il piccolo mondo del prog pareva ormai essere ai piedi di Nick Barrett & co. Non sappiamo se ciò sia da attribuire alle vicende personali di Nick o ad una certa saturazione della formula, ma con il lungamente atteso “Not of this world” iniziò ad incrinarsi qualcosa, forse il momentum era passato, forse le nuove tendenze privilegiavano qualcosa di più oscuro, sulla scia del prog-metal, ma fu allora che la band decise di cambiare le carte in tavola. Seguì allora una serie di album in cui lo stile solare e vagamente favolistico dei Pendragon lasciava spazio a qualcosa di più impenetrabile, il tripudio di tastiere di Clive Nolan faceva due passi indietro in favore di riff di chitarra oscuri e pesanti, liriche di critica sociale e un’interpretazione vocale più sofferta. Se “Believe” ancora faceva da ponte tra i vecchi lavori ed i nuovi, con “Pure” e “Passion” si rischiò di alienare parte della storica audience, forse guadagnando consensi tra i figliocci di Dream Theater e Threshold, con Nick a sciorinare nelle interviste dell’epoca la sua nuova infatuazione per il nu-metal. Intendiamoci, il marchio di fabbrica era ancora presente, dietro una coltre di fumo e distorsione, ma è solo con il successivo “Men who climb mountains” (e siamo nel 2014) che si ricominciò ad intravvedere un po’ della positività e della melodia del passato. Giungiamo infine ai nostri giorni: già il filmato promozionale che accompagnò l’annuncio di “Love over fear”, undicesimo album di studio, faceva esplicito riferimento ad un ritorno ai suoni accantonati con il nuovo millennio, e il breve spezzone a corredo del “promo” pareva confermare. Ciò che abbiamo nelle nostre mani, in effetti, è forse qualcosa di più che una regressione al glorioso passato: questo perché non rinnega la parentesi più sperimentale e perché introduce elementi inediti nel suono del Pendragon; allo stesso tempo, mi sento di dire che il risultato – melodico, intimistico, scanzonato, riflessivo, sincero – sia quanto di meglio i fan di vecchia data potessero augurarsi. Assieme ad un ritrovato ruolo delle tastiere, con il piano (spesso suonato dallo stesso Barrett) mai così in evidenza prima d’ora, è l’interpretazione vocale di Nick – non sempre unanimemente apprezzato, come cantante - a stupirci in positivo, così come gli inserti folk quasi in odore di Waterboys. Come lo stupendo artwork di Liz Saddington vorrebbe suggerirci, è un’atmosfera acquatica a prevalere nei dieci brani, tutti di durata inferiore ai dieci minuti, quasi un’affermazione dell’oceano tanto amato dall’autore (Nick è anche un appassionato surfista…) sul grigiore e la paura: “this is my element” canta Barrett in “Water”, i suoni stessi della sua chitarra sono liquidi ed evocano l’abbraccio taumaturgico dell’acqua salata, capace di annullare persino la percezione del tempo;le beccacce sulla desolata spiaggia invernale di “Whirlwind” (in cui troviamo il sax di Julian Baker)rappresentano la perseveranza e il superamento degli ostacoli: le note si diradano fino ad assumere la forma di un mantra con archi e arpa in “Soul and the sea”. Non dovete pensare però ad una deriva new-age: “Everything” apre l’album con la batteria ostinata del nuovo acquisto Jan Vincent Velazco (sostituisce l’ormai affermato Craig Blundell, “rubato” da quello stesso Steven Wilson che anni or sono non faceva mistero di dileggiare il nuovo prog inglese, di cui aveva curato famigerate compilation) e tra festosi soli di elettrica, cori, synth e tappeti d’organo ci riporta ai tempi di “The walls of Babylon” o “Back in the spotlight”; gli stessi ingredienti li assaporiamo nella più pacata “Truth and lies”, i cui arpeggi di chitarre acustiche intrecciate sono pane per i denti dei genesisiani incalliti e la Stratocaster di Barrett fornisce il meglio di sé. La vera novità la troviamo in ballate rarefatte per piano, chitarra e voce come “Starfish and the moon”, evocative allo stesso modo in cui può esserlo una “Spirit of the water” dei Camel: l’acqua stavolta non è la sfida delle onde, bensì un mare immobile in cui specchiarsi alla luce della luna. Si cambia tutto con “360 degrees”, quasi una scanzonata filastrocca nonsense intrisa di sonorità da “rock celtico”, con il mandolino di Nick e il violino dell’ospite Zoe Devenish a menare le danze: esperimento spiazzante ma a mio avviso riuscito. “Eternal light” rappresenterebbe forse il brano epico del disco, ma l’aggettivo stona con la leggerezza di brezza marina che la pervade: in ogni caso, si tratta di un episodio mutevole, che contrappone ad un incipit da pop raffinato (Tears For Fears, Prefab Sprout…) un climax sinfonico da brividi, non dissimile da quello di “Am I really losing you”, costituendo in tal modo una summa dell’intero lavoro. L’unico puntatore in direzione del recente passato lo troviamo in ”Who really are we?”, con una sensibilità però mediata in modo tale da non farla apparire estranea all’universo sonoro del disco: qui l’arcipelago citato non è un aggruppamento di isole, ma quello dei gulag descritti da Solženicyn, eppure la musica è ancora una volta tutt’altro che claustrofobica. La chiusura dell’album si riallaccia all’ottimismo consapevole del titolo, “maybe one day we’ll ride wild horses, maybe one day we’ll dive 10.000 feet”: il senso di libertà, la passione, l’avventura sconfiggeranno una paura diffusa e infine irragionevole: ironia della sorte, i Pendragon sono stati costretti ad interrompere a metà il loro tour promozionale a seguito dell’emergenza sanitaria sopraggiunta. Personalmente, questo è l’album della mia definitiva riconciliazione con la band; cosa ben più importante, potrebbe fungere da introduzione al mondo dei dragoni per una nuova generazione di giovani ascoltatori, che potrebbero esserne attratti per via della produzione “moderna” e della perizia tecnica, cosa che mi auguro fortemente e che la band meriterebbe appieno, se non altro per la coerenza e la perspicacia.
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