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Gli SHADOWLAND, come molti sapranno, sono un gruppo parallelo ai più noti PENDRAGON, avendo in comune un personaggio come Clive Nolan, semplice tastierista nei PENDS, ma autentico cervello pensante nonché voce solista nella band in oggetto. Il secondo album della band di Clive viene a ribadire ed affinare le caratteristiche musicali già sancite con l'esordio di un paio d'anni fa. La musica degli SHADOWLAND è di certo da includere sotto la voce new-Prog (il buon dive è fra l'altro mèntore di numerose bands che ruotano attorno al suo studio di registrazione), ma l'approccio che essi le danno è più diretto rispetto a quello dei PENDRAGON.
Si può ragionevolmente parlare, usando etichettature che non amo ma che possono aiutare a farsi un'idea, di pop/Prog/AOR per le 8 canzoni in cui vengono divisi i 60 minuti di musica che ci vengono presentati. Rispetto al menzionato album d'esordio possiamo però felicemente notare il distacco da un certo tipo di canzoni leggere dal peso comparabile a quello di una piuma. Il fatto stesso che, a parte il breve prologo di questo concept album, la composizione più breve superi i 6 minuti, depone a favore di un certo irrobustimento dei temi propostici. I nostri hanno fatto passi da gigante, occorre ammetterlo, e l'album può aspirare a pieno titolo a diventare aspirante a pieno titolo a diventare un classico del nuovo Progressive inglese degli anni "90. Fin da "The hunger", introdotta da un flash di tastiere che colpisce al cuore, per continuare con "Dreams of the ferryman" (uscita anche su un CD single che contiene alcune chicche), gravida di atmosfere che riportano alla memoria passaggi di "The sentinel" dei PALLAS, possiamo cominciare a goderci l'interpretazione del Prog da parte di Clive & c. "Half moon street" è caratterizzata da una cupa batteria e ci mostra un Karl Groom particolarmente ispirato con la sua chitarra; il risultato ci porta a tratti (incredibilmente) in direzione dei MALOMBRA Molto bella anche la lunga e delicata title track, nonché la conclusiva "Mindgames", caratterizzata dall'uso della chitarra acustica che le dà quasi la forma della ballad tipica floydiana. Fughe di tastiere, atmosfere surreali e passaggi tirati si alternano quindi a momenti in cui la vena canzonettara di Clive, che meriterebbe altri riscontri di classifica, prende il sopravvento.
Un album che può soddisfare molti palati, quindi, oppure nessuno, teoricamente. Io però sono rimasto più che soddisfatto dall'ascolto...
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